Le ricche famiglie d’impresa costruiscono strategie industriali, finanziarie, ereditarie, strutturano la proprietà in holding e cassaforti che collocano sotto bandiere diverse, programmano col bilancino i delicati equilibri del potere interno. E poi - zac! - tutto s’infrange contro l’imponderabile. Pietro Ferrero ieri è morto in bicicletta, in Sud Africa, a 48 anni, lasciando tre figli piccoli. Con il fratello Giovanni, più giovane di un anno, era dal 1997 amministratore delegato della multinazionale che porta il nome di famiglia. La riservatezza totale del gruppo - confermata ieri dalle misuratissime parole ufficiali sulla scomparsa dell’ad - aveva permesso di capire almeno una cosa: che Pietro aveva la stoffa dell’innovatore e che aveva più volte cercato di aprire nuove strade alla multinazionale della Nutella.
Ma non c’era riuscito, almeno nelle occasioni più evidenti, per la prudente visione conservatrice del padre Michele - l’uomo più ricco d’Italia e da vent’anni tra i più ricchi del mondo - che a 86 anni è ancora titolare di un potere di veto assoluto. Alcuni anni fa Pietro si era cimentato nel progetto di un fondo per l’agroalimentare, al quale il nome di Nutequity non portò fortuna: lo sbarramento del padre fu totale. Lo stesso Pietro apparve il più favorevole, in famiglia, all’acquisto del colosso britannico Cadbury, poi sfumato. Tra le sue responsabilità c’era anche quella sul centro dell’innovazione per i prodotti del gruppo: uno spirito industriale, il suo, con una più forte attenzione al sistema produttivo, mentre la responsabilità commerciale appartiene al fratello Giovanni. Se le poche notizie sulla famiglia lasciavano trapelare un sostanziale affiatamento, non c’è dubbio che i princìpi del vecchio Michele dovevano apparire un po’ stretti alla nuova generazione. Princìpi legati alla sola crescita interna, senza acquisizioni, e alla fedeltà ferrea al settore dolciario di appartenenza; riemersi nelle ultime settimane, quando il nome dei Ferrero è comparso di frequente sui giornali (cosa rara) sull’onda dell’attualità legata al caso Parmalat. Ora, nell’immediato almeno, è difficile pensare che il gruppo possa imbarcarsi in vicende di straordinaria amministrazione.
Dalla metà del pomeriggio di ieri, quando la notizia della scomparsa di Pietro Ferrero ha cominciato a diffondersi, i particolari sono stati molto frammentari e non hanno permesso neppure di ricostruire con esattezza le cause della morte. Sicuramente Pietro stava pedalando in biciletta, sua grande passione, ma fino a tarda ora non è stato possibile accertare con certezza la causa della morte, probabilmente un malore. L’ad del gruppo era in Sudafrica per una missione di lavoro, con il padre e una trentina di dirigenti, per progettare la realizzazione di uno stabilimento non lontano da Johannesburg.
Pietro, terza generazione dei Ferrero, era sposato dal 2003 e aveva tre figli piccoli: Michael, 4 anni, Marie Eder di 3 e John di un anno e mezzo.
Laureato in biologia, era entrato in azienda nel 1985. Con il fratello Giovanni condivideva la carica di amministratore delegato della Ferrero spa, società italiana del gruppo; guidava inoltre la Ferrero International, holding lussemburghese che controlla 38 società operative, con 18 stabilimenti e oltre 20 mila dipendenti in quattro continenti.
Ad Alba, dove viveva, lo ricordano come un uomo riservato e semplice, amante dello sport, in particolare dello sci e della bicicletta. Amava pedalare per le colline intorno alla città, spesso insieme a dipendenti del gruppo e talvolta partecipava a gare amatoriali.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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