"Macché nichilista Il mio prete è da commedia"

"Macché nichilista Il mio prete è da commedia"

Nel cinema italiano del dopoguerra, la figura del prete oscilla. Martire politico è Aldo Fabrizi in Roma città aperta di Roberto Rossellini; simpatico energumeno strapaesano e politicante è il Fernandel dei Don Camillo.
Poi le sensibilità cambiano. Marcello Mastroianni esita fra amor divino e amor di Loren nella Moglie del prete di Dino Risi; il comunista sessantottardo deluso della Messa è finita, di e con Nanni Moretti, abbraccia la fede nel Dio unico avendo perduto la fede nel partito unico.
Il resto dei preti cinematografici? Guerriglieri (Io e Dio di Pasquale Squitieri, prodotto da Vittorio De Sica), folli (L'udienza di Marco Ferreri), corrotti (Roma bene di Carlo Lizzani), cafoni (don Buro di Christian De Sica di Vacanze in America di Carlo Vanzina)...
Chi scrive, ha frequentato scuole cattoliche fra 1957 e 1970 senza incappare in preti così. Allora e dopo ne ha conosciuti simili a quelli di Io loro e Lara, di e con Carlo Verdone, che sono tre: anche i due di contorno sono verosimili e dignitosi. Il loro incontro, quando il personaggio di Verdone manifesta disagio, è realistico, non grottesco.
A un film non si chiede generalmente di più, ma il prete, se non è un santo, meglio se anche martire, delude sempre qualche attesa. Ieri sul Corriere della Sera Vittorio Messori rilevava tracce di nichilismo in Io, loro e Lara: non discute il prete di Verdone finché non lo vede rassegnato al fatto che i fedeli di nome non lo siano di fatto.

Signor Verdone, per le la grazia è di pochi, il destino è di tutti. E per lei?

«Sono un cattolico che continuamente acquista e perde la fede. Davanti a certe realtà africane, ancor più a certe realtà italiane, il mio prete vive un momento di crisi».

Tre milioni d’incasso in tre giorni, poi le osservazioni garbate di Messori, che rendono il suo film un evento.
«La ringrazio di metterla così. Certo, sono i due piani della stessa vicenda. Benissimo il primo, ma devo rispondere sul secondo».

Ovvero?
«Ho girato una commedia, non un dramma. Non sono Dreyer! Non sono Bergman!».

Lei ha sottoposto la sceneggiatura a dei missionari per non urtare delle sensibilità...

«Sì. Ho avuto un po’ di coraggio, quella di inserire nel film il tema di un Occidente dissestato davanti agli occhi di un missionario che rientra dopo dieci anni».

Tema serio, svolgimento allegro.

«I toni sono da film commerciale, molto visto. Ciò gli dà un’eco anche morale».

E infatti lei è stato preso sul serio. Ma il dissenso di Messori è altrove.

«E mi ha colpito, perché l’80 per cento delle osservazioni finora concordavano: avrei dovuto essere più cattivo, meno ottimista, almeno secondo una critica totalmente positiva».

È un’etica, non un’estetica quella di Messori.

«Comunque vede del nichilismo nel finale. Io no. Certe mie espressioni nel finale constatano la realtà, non significano che il mio prete disperi».

Messori forse auspicava da lei un film stile anni Cinquanta.

«Ma oggi redimere tutti avrebbe reso finto e più lungo di venti minuti il film. Sarebbe diventato stucchevole, insomma».

Continui.

«Violentato in situazioni paradossali, il mio prete nel finale unisce serenamente la famiglia. Ma dove si vedono scene così, quasi come quelle d’una volta?».

Ma per Messori intorno tutto è come prima.
«Non tocca a me affondare il bisturi nella società! Avrei dovuto edulcorare la realtà? Certe cose non si superano per via di un film».

Messori vuole da lei ciò che manca ad altri: la speranza.

«Ma c’è. Solo è più sfumata di come vorrebbe lui. Lo sguardo di tenerezza del mio prete prende atto dei vizietti di famiglia. Scuote la testa perché sono fragilità ataviche».

Lei aveva preti reali in mente?
«Sì, preti di periferia, che agiscono nella normalità».



All’apice della carriera, lei oggi è teso.
«Messori scrive con rispetto. Fatta propria da altri, la sua obiezione potrebbe diventare intimazione».

Quale?
«Non tocchi certi temi chi non è vi è abilitato».

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