La madre di tutte le sorprese: in Irak è boom dell’economia

Ancora spari dopo il cessate il fuoco chiesto anche da Abbas e proclamato a partire dalle 22 di ieri

Sangue tanto, come sempre. Ma ora anche soldi. Pochi, d’accordo; ma qualcuno inizia a farli. Ed è perlomeno un segnale di speranza in un Paese come l’Irak che sprofonda nella guerra civile. Secondo uno dei più autorevoli centri studi del mondo, il Global Insight, l’economia starebbe addirittura vivendo un boom, con una crescita che nel 2005 è stata del 17% e che nel 2006 dovrebbe attestarsi al 16%.
Il settimanale Newsweek ci crede e nel numero di questa settimana racconta una Bagdad diversa, in cui, nonostante gli attentati, il mercato immobiliare corre, con prezzi che in tre anni sono più che centuplicati. Una Bagdad in preda alla febbre dell’automobile: la compravendita di vetture usate è in continua crescita e il numero di mezzi circolanti è così elevato da paralizzare il traffico della città: ingorghi e code sono ormai abituali, come se questa fosse la capitale di un normale, pacifico Paese in via di sviluppo. Una Bagdad che si scopre imprenditoriale: le aziende registrate alla Camera di commercio erano ottomila tre anni fa, ora sono trentaquattromila. E ce n’è persino una che nel 2005 ha realizzato utili per 333 milioni di dollari e che quest’anno conta di sfondare il mezzo miliardo. È la Iraqna, leader nella telefonia mobile. Auto e telefonini: un binomio irresistibile.
Il problema è che l’Iraqna è l’unico grande successo. E che quei tassi di crescita da capogiro (peraltro non condivisi dalla Banca mondiale che per il 2006 stima l’aumento del Pil al 4%) si riferiscono a una realtà disastrata. Quando parti da zero o quasi basta poco per raggiungere le doppie cifre. E l’Irak allo zero era quasi arrivato, stremato da dodici anni di sofferenze sotto l’embargo dell’Onu e poi dalla guerra: nel 2003 la ricchezza nazionale crollò del 30% e molte delle ex industrie statali, chiuse temporaneamente, non hanno mai ripreso l’attività. Quando si leggono i dati sulla disoccupazione il sorriso si spegne: oggi sono senza lavoro tra il 30 e il 50% degli iracheni.
Eppure nessuno muore di fame. Come accade in tutti i regimi dittatoriali, anche nell’Irak di Saddam Hussein le famiglie avevano l’abitudine di cautelarsi convertendo i propri risparmi in dollari, naturalmente in contanti e conservandoli nel materasso coniugale anziché in banca. Ora quel denaro circola e alimenta le vendite al dettaglio, soprattutto dei beni di prima necessità, ma anche di elettrodomestici, radio e televisioni ovvero di tutti i beni scarsamente reperibili ai tempi del raìs. Grazie anche alla Cina: i prodotti provenienti dall’Estremo Oriente sono così a buon mercato da essere accessibili anche a un consumatore, certo non agiato, come quello iracheno.
L’altra buona notizia è che i salari sono aumentati del cento per cento, mentre le tasse sul reddito sono scese dal 45 al 15% (ammesso che qualcuno davvero le paghi). L’altra cattiva notizia è che la sicurezza erode gli investimenti delle aziende, che sono costrette a investire in guardie private e auto blindate fino a un terzo del proprio budget.


Sono le contraddizioni di un Paese che, secondo gli economisti di Global Insight ha comunque grandi potenzialità: l’Irak sopravvive nonostante non abbia potuto ancora contare pienamente sulla sua risorsa più importante, l’industria petrolifera. Quando sarà davvero normale potrà volare. O almeno così pare.
marcello.foa@ilgiornale.it

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