La giustizia dei teoremi come arma politica

Quando si sostituiscono i teoremi ai fatti i processi possono durare disinvoltamente sei gradi di giudizio o cadere sotto la mannaia del filtro preliminare

La giustizia dei teoremi come arma politica
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Le due «assoluzioni» eccellenti, quella di Renzi e quella di Salvini, sono state utilizzate dalla Anm, non tanto come un segnale di pace verso la politica, ma piuttosto come un avviso ai naviganti: i giudici non si lasciano condizionare dall'accusa neppure quando imputati e indagati sono nomi importanti della politica e del governo. Siamo tutti imparziali, autonomi e indipendenti per cui non abbiamo bisogno di riforme. Assoluzioni che si presterebbero, insomma, ad essere utilizzate come efficaci slogan elettorali in vista del referendum sulla separazione delle carriere. Ma questo solo ad uno sguardo superficiale della storia perché a ben vedere vi sono aspetti nelle due vicende che aprono a scenari meno spendibili in termini di facile propaganda.

Un processo è sì, come diceva Franco Cordero, una «macchina retrospettiva», volta a ricostruzione di un fatto, ma il problema è che il «fatto» è spesso a sua volta un problema. E in alcuni casi non è neppure chiaro se di quel «problema» possa e debba occuparsi un magistrato, trattandosi di questione da lasciare al giudizio morale, politico o degli storici.

La vicenda del processo «trattativa» ci ha già insegnato come sia facile scivolare dall'accertamento di un fatto verso la formulazione di teoremi, con la pretesa di rifare la storia del Paese e di dispensare giudizi di natura politica o etica che non spettano certo alla magistratura. Fra la legge e la realtà dei fatti si possono frapporre infatti le complesse ed insindacabili scelte della politica e dei governi, ma anche le complicate distinzioni teoriche che attribuiscano, ad esempio, la qualità di articolazione di partito ad una fondazione. Se si sostituiscono alla legge ed alle fattispecie i teoremi, la giurisdizione diviene una giustizia di scopo, volta ad affermare la verità del singolo magistrato piuttosto che, come dovrebbe essere, la responsabilità dell'imputato. Ovvio che questo rischio aumenti se la scelta cade su un soggetto politicamente esposto perché in quel caso il processo diviene doppiamente ostaggio, sia della magistratura politicizzata, che della politica giustizialista.

Due volti apparentemente opposti di una medesima distorsione che vede nel processo un cinico strumento di potere che si alimenta di teoremi. Ma quando si sostituiscono i teoremi ai fatti i processi possono durare disinvoltamente sei gradi di giudizio o cadere sotto la mannaia del filtro preliminare: dipende dagli astri. Ma questo poco importa, perché chi aveva puntato sulla condanna aveva già riscosso. Il processo che interessa è oramai quello fatto di propaganda e di gogna mediatica, è quello costruito intorno al pensiero egemone delle procure, in base al quale il solo accusare equivale a rivelare la verità. Il resto non conta. Il baricentro della vita politica del Paese gravita infatti su questo inaccettabile paradosso.

È per questo motivo che quelle assoluzioni non ci possono entusiasmare, ma neppure si prestano ad opportunistiche valorizzazioni e costituiscono invece la conferma di uno scandalo senza eguali.

.*Presidente delle Camere Penali

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