La guerra civile a colpi di processi

La giustizia come politica

La guerra civile a colpi di processi
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Può una decisione politica, giusta o sbagliata che sia, essere giudicata da un magistrato? Ed ancora: può il Potere giudiziario non solo sindacare ma addirittura mettere sul banco degli imputati il Potere esecutivo? Alla base dell'operato dell'allora ministro dell'Interno, Matteo Salvini, nella vicenda Open arms ci sono questi due interrogativi in relazione ai quali la richiesta dei pm di una condanna a sei anni per sequestro di persona appare un'enormità. E' l'ennesimo sconfinamento di un Potere sull'altro che rischia di costituire un precedente pericoloso. Di ciò, dispiace, c'è poca consapevolezza nel mondo della politica. Come sempre il calcolo, l'idea che la condanna di Salvini possa determinare la crisi dell'attuale quadro politico, è preminente sulle questioni di principio. È la profonda patologia che ha colpito le democrazie occidentali che ormai vivono la politica come una feroce contrapposizione, come il surrogato di una perenne guerra civile: negli Stati Uniti le elezioni presidenziali, complice anche il linguaggio usato dai candidati, sono diventate una cronaca di attentati; da noi ormai è tradizione far fuori il politico di turno attraverso lo strumento giudiziario. Una condizione che rende le democrazie estremamente fragili e deboli nel confronto con le autocrazie. La decisione di allora di tenere in rada per settimane una nave piena di immigrati clandestini può essere considerata discutibile ma è stata una scelta squisitamente politica. Da qui imbastire un processo sull'operato di un ministro è un salto di qualità che deve preoccupare. Se le scelte di un governo debbono essere sottoposte al vaglio di un tribunale e non degli elettori come si conviene in democrazia, allora davvero l'ex-premier Conte e l'ex-ministro della Sanità Speranza dovrebbero essere giudicati da un magistrato per le vicende legate al Covid. E visto che la messa sotto processo dell'episodio Open Arms sottintende anche la condanna - secondo una certa retorica che ha contagiato gli uffici giudiziari - della politica di un governo che avrebbe provocato vittime tra i migranti sui nostri mari, allora con la stessa logica bisognerebbe considerare Joe Biden responsabile dei 686 migranti morti nel tentativo di superare il confine tra Usa e Messico nel solo 2022. La verità è che tutto stona in questa vicenda. E' ridicolo l'atteggiamento pilatesco di Giuseppe Conte che fa ricadere la responsabilità sul solo ministero dell'Interno, quando se avesse voluto impedire quella scelta l'ex-premier avrebbe potuto utilizzare mille strumenti a cominciare dalla crisi di governo. Sa tanto di «supercazzola» anche il distinguo di Matteo Renzi che avrebbe votato contro l'incriminazione del ministro se si fosse appellato al fumus persecutionis e se non avesse rivendicato al sua scelta. In fondo il garantismo è anche questo: combattere sul piano politico una decisione su cui non si è d'accordo e non delegare l'opposizione alla magistratura, altrimenti tra distinguo e «patteggiamenti» il garantismo diventa un «gargarismo» per usare l'espressione del Robespierre de' noantri che scrive sul Fatto.

E in fondo stona tra le mille riforme pure l'atteggiamento di questo governo di non porsi problema delle invasioni di campo del Potere giudiziario sul Potere politico che caratterizza la storia degli ultimi quaranta anni: una volta nella nostra tanto celebrata Costituzione l'equilibrio era determinato dall'immunità parlamentare come contrappeso all'autonomia della magistratura. Ora al posto di quella funzione c'è solo il vuoto.

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