MAGRIS La coscienza civile della letteratura

«La storia non è finita»: una raccolta di articoli dello scrittore triestino

Quando apriamo un libro di Claudio Magris - qualunque libro, non importa se di carattere saggistico o narrativo - dobbiamo aver già deciso in quale veste desideriamo incontrarlo. E il segno che vogliamo mettere sulle sue affermazioni. Leggeremo, dunque, Magris come artista o come studioso? La domanda non è inerente la materia dei suoi libri - i quali, va da sé, presentano già da soli, e con sufficiente chiarezza, il proprio statuto - ma alla persona dello scrittore. E non è una domanda oziosa.
Fin dal mio primo incontro con l’opera di Magris (Lontano da dove), anni Settanta, mi accorsi che in lui il narratore e il saggista convivevano senza mescolarsi. A quel tempo i due collaboravano gomito a gomito, ed erano solleciti l’uno alle esigenze dell’altro.
Poi, verso la fine degli anni Ottanta, con gesto lucido e rapinoso uno dei due si staccò dall’altro mediante un atto ufficiale. Il narratore, che fino a quel momento si era ben portato alle dipendenze del già acclamato studioso (era infatti lo studioso a tirare la carretta, e l’artista lo sapeva, accettando il gioco) d’un tratto si mise in proprio. Nacquero il racconto Illazioni su una sciabola e, successivamente, il romanzo Un altro mare.
Tutta l’opera di Claudio Magris si stringe, talora abrasivamente, ai corrugamenti della biografia. Ad essi Magris ha sempre risposto con gesti repentini, che subito lo scrittore aveva cura di rendere definitivi. La nascita ufficiale del Magris narratore ebbe sicuramente un nesso con quei corrugamenti (la biografia, in tutta l’opera di Magris, la si avverte al tatto, come un terreno accidentato su cui sia stato posto un tappeto dalla trama ricca e complessa), ma rivela anche un tratto importante del temperamento artistico di Magris, che tende, come detto, a trasformare ogni mutazione in punto di non ritorno.
Su questo perno ruota la lettura del sottoscritto, che affronta anche La storia non è finita, ultima fatica dello scrittore triestino (Garzanti, pagg. 250, euro 16) mantenendo un piede ben saldo nella sua dimensione letteraria. Si tratta, è vero, di una raccolta di articoli di giornale di argomento politico o, meglio, civile, comparsi per lo più sul Corriere della Sera. Presi come tali, essi si prestano ad accordi e anche a qualche disaccordo.
Sono diverse le affermazioni del libro che non mi trovano in sintonia, per esempio quando si legge che «la tolleranza e il dialogo presuppongono un relativismo etico, contro la presunzione di essere i soli depositari di un sapere assoluto» - mentre io penso che quella presunzione, che nasce da una disperata fuga da se stessi, sia essa stessa un’espressione di profonda incertezza, il che non toglie l’assoluta necessità di certezza che tutti abbiamo, sia nella scienza che nella cultura che nella società.
I punti d’accordo - ad esempio sul fatto che l’idea dell’«io» (di origine più giudaico-cristiana che ellenica) costituisca il vero fondamento dell’Occidente, la sua unicità insostituibile - sono comunque molto più numerosi. Non si può non approvare la giusta battaglia che Magris combatte, pressoché in tutte le pagine del libro, a favore di un concetto, quello di «laicità», che mai come oggi si trova in pericolo, da noi e ovunque. Si può leggere in diversi modi il binomio fede-ragione, ma non si può non concordare sul fatto che, specialmente in questo preciso momento storico, la questione decisiva passa per la ragione, e non per la fede. L’idea che ci facciamo circa la natura della fede dipende infatti dalla nostra idea di ragione.
Ma di tutti questi temi viene voglia di discutere in altre sedi. Le pagine dei giornali non sono più fatte per i chiarimenti, ma solo per la moltiplicazione degli equivoci: è più utile, personalmente e socialmente, tirarli fuori in una sera tra amici, davanti a una bottiglia di vino.
L’interesse del libro sta anche altrove. Sta, ad esempio, nella vibratilità della materia, nella disposizione dello scrittore a essere fedele, anche quando fa saggistica, alla propria anima narrativa. La storia non è finita suona, fin dal titolo, non solo come un mònito civile, ma anche come una frase che lo scrittore rivolge a se stesso, magari in dialetto triestino, dopo che, superato un difficile passaggio montano, il piede ricomincia, nonostante qualche vertigine, a camminare su un terreno più solido: «Andiamo, vecchio: la storia non è ancora finita».
Il libro è infatti pieno di sobbalzi, e la difesa di alcuni principi fondamentali non impedisce allo scrittore di cercare, affascinato, il rapporto con questioni difficili e dolorose, che sembrerebbero mettere in crisi proprio quei valori. Il lettore avvertito sa che Magris non si precipita dentro la difficoltà solo per mettere alla prova la propria dialettica, ma per fare i conti - conti mai conclusi, sempre riaperti - con una sorta di evidenza tragica, che è a mio avviso il succo della visione del mondo che questo grande personaggio ci presenta nelle sue infinite variazioni: l’evidenza - laica, disincantata e insieme religiosa - che non esiste principio universale in grado di divorare e annettere la propria drammatica antitesi, quando sia l’imprevedibilità della vita a mostrarcene l’esistenza inesorabile.


E, giunti a quel punto, l’ultima parola non tocca ai discorsi ufficiali e nemmeno alla filosofia, ma alla pietà, al dolore, al senso della propria miseria. Che sono - assai più dell’ideologia - i materiali di cui è fatta la letteratura.

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