La mamma-tenente scampata: "Pensai a mia figlia. E al dovere"

Isabella Lo Castro, oggi capitanoil ricordoPsicologa dell'esercito, era al lavoro con i bimbi sordomuti iracheni: «Il boato l'hanno sentito pure loro»

La mamma-tenente scampata: "Pensai a mia figlia. E al dovere"

«Quella mattina sono al lavoro in una scuola per sordomuti iracheni. All'improvviso sento il boato e la terra tremare. Non un semplice tremore, ma una specie di terremoto. Tanto che i bimbi pur non sentendo il boato scoppiano a piangere». Il capitano, allora tenente, Isabella Lo Castro quella mattina è una delle poche donne in divisa presenti a Nassirya. Il suo incarico di psicologa responsabile del sostegno alla popolazione civile l'ha portata in quella scuola per sordomuti. Il dovere qualche minuto dopo la riporta alla base. «Ricordo la strada vuota, deserta e la voglia di far sapere ai nostri cari di esser vivi. Ricordo le immagini della base distrutta alla televisione e faccio i conti con i morti. Vedo i loro volti, scopro di conoscerli, ricordo le chiacchiere fatte in quei mesi. Quando finalmente mi dico è giusto che vada perché sono una di loro mi ritrovo a far i conti con il mio ruolo di madre, con il senso di protezione nei confronti di una bimba di due anni rimasta a casa ad aspettarmi. Dentro me si scontrano l'istinto molto umano di restare lì al sicuro e il dovere di donna in divisa, obbligata ad andare a prendersi cura dei sopravvissuti. Alla fine però ha la meglio il senso del dovere e quindi decido di andare». Da quel momento l'allora tenente Lo Castro non fa altro che ascoltare i racconti di chi ha visto morire i propri colleghi e di chi è corso a soccorrerli.
«Tutti si portano dentro il dolore, la ferita di sensazioni quasi fisiche. Tutti mi parlano di quell'odore di carne bruciata. Raccontano l'angoscia, la paura di muoversi in mezzo allo scoppiettio continuo delle munizioni. Descrivono la confusione mentale generata dal brusio di urla, ordini e rumori. Ricordano la nube indistinta di fumo e polvere che li circonda. Rivivono l'angoscia di calpestare il sangue dei colleghi, di schiacciare qualche ferito o, peggio, camminare sul corpo di un morto». Quell'orrore serve però - secondo la psicologa in divisa - a restituire ai nostri militari l'affetto e la comprensione dei cittadini. «Quell'attentato rappresenta un vero spartiacque nel rapporto tra la popolazione italiana e le sue Forze Armate. Per la prima volta la percezione del rischio cambia totalmente. I militari comprendono che il rischio è assai reale e rispondono con un addestramento e una preparazione molto più severa. La comunità nazionale attraverso quel lutto s'avvicina di più a loro.

Dopo Nassirya i soldati visti, a volte, come lontani tornano ad essere parte della comunità nazionale. L'addio ai quei caduti stringe la cittadinanza intorno ai propri soldati. E la nazione comprende cosa rischiamo in missione».

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