Manie e parolacce, il Galles secondo Thomas

Lo spettacolo, in scena stasera, chiude «La casa delle scuole di teatro», progetto del Piccolo che ha riunito cento attori-allievi di diversi Paesi europei

Igor Principe

Qualcuno potrebbe storcere il naso. L'intercalare non propriamente da educandi che sfoggiano i protagonisti di Gas - take me somewhere good non è quello che ci aspetta dal teatro, se lo si considera una teca in cui preservare il valore di un tempo della cultura che è sempre più glorioso di quello presente.
Se invece il teatro è racconto e sintesi della realtà che ci circonda, il linguaggio colorito che caratterizza lo spettacolo in scena stasera al Teatro Studio (19.30, ultima replica) non sarà che un elemento di drammaturgia. Essenziale, tuttavia, per capire un angolo di Europa di cui solitamente si parla a colpi di clichè.
Quell'angolo è il Galles, vero protagonista di una pièce tratta da un testo di Ed Thomas, Song from a forgotten city. Dopo averne curato l'adattamento, Firenza Guidi (si chiama proprio così) l'ha diretta affidandola agli allievi del Royal Welsh College of Music & Drama, cui vanno onore e onere di chiudere la terza edizione di Masterclass, quest’anno intitolato La casa delle scuole di teatro.
«Se devo parlare di questo spettacolo, devo dire le parolacce» scherza la regista, incontenibilmente energica nel suo saltare da un italiano a un inglese entrambi perfetti. «Si parla di identità, e in Galles non è un tema facile. Tutto ruota intorno a una contraddizione continua: sono gallese perché ne parlo la lingua o perché ci sono nato?».
La risposta è proprio in un linguaggio veemente, una deflagrazione di parole cui Ed Thomas si affida per raccontare la ferita che lacera l'identità di un popolo. «Per gli altri, il Galles sono tre cose: i narcisi, le pecore, il rugby - prosegue Guidi -. Thomas li rivolta, raccontando schizofrenie esilaranti. Una tra tutte: quella di genitori che mandano i figli a imparare il gallese antico perché possano riscoprire radici che loro non hanno. Poi i figli tornano a casa, si esprimo in lingua e loro non li capiscono».
La narrazione avviene per mezzo di una performance-montaggio di cui sono protagonisti 23 giovani attori, che insieme ad un'altra settantina sono stati coinvolti nella terzo anno di percorso di quel Masterclass che è ormai una colonna nelle stagioni del Piccolo Teatro.
L'edizione che si chiude stasera ha coinvolto, dallo scorso 4 novembre, otto scuole di teatro provenienti da sei nazioni (Italia, Ungheria, Ecuador, Galles, Francia, Romania); ha visto rappresentati sette testi contemporanei in sedici serate tra due teatri (Studio e Out Off); ha riunito cento allievi-attori e due gruppi di studenti provenienti da atenei e accademie lombarde (dalla Bicocca al Politecnico).
«Ecco perché questo progetto non è da considerare la sezione giovani del Piccolo teatro - dice il direttore, Sergio Escobar -. È invece un momento essenziale per capire il futuro del teatro stesso e del mondo che verrà. C'è un rapporto fortissimo con università che apparentemente non hanno a che fare con il nostro mestiere, e che dialogano con il teatro come luogo in cui si raccolgono le sfide della complessità del mondo contemporaneo».
«I testi su cui lavorare vengono solo proposti alle scuole, che poi ci lavorano in totale autonomia - prosegue Luca Ronconi, padre putativo di Masterclass -. Potevamo avere un risultato deludente, invece è stato entusiasmante.

Si è lavorato su come il contemporaneo interviene sulla drammaturgia, determinando le interazioni tra testo, attore e spazio. È il filo conduttore del mio lavoro, e Masterclass mi dà la possibilità di seguirlo con chi sarà il futuro del teatro».

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