"Per Maradona piango ancora. Vorrei far luce sulla sua morte"

Il presidente del Napoli portò in Italia il miglior calciatore del mondo. "Il mio sogno sarebbe andare a Buenos Aires con un investigatore"

"Per Maradona piango ancora. Vorrei far luce sulla sua morte"

Il repubblicano presidente del Calcio Napoli, Corrado Ferlaino, a differenza del suo monarchico predecessore, commendator Achille Lauro (alias 'O Comandante), ai napoletani ha sempre dato tutto e (quasi) subito: due scudetti, una Coppa Uefa, due Coppe Italia e una Supercoppa Italiana.

Trofei palpitanti come i riccioli ribelli di Maradona; vittorie conquistate per lo più nel bel mezzo della profumata (di soldi e scandali) «barberia» calcistica degli anni '80.

Ferlaino è stato l'attento «parrucchiere» del giocatore più grande del mondo e ha cercato di proteggerne la chioma finché ha potuto; poi lo scalpo del Pibe de Oro fu tagliato da mani macellaie e il genio del football finì soffocato nella sua stessa lampada. La recente morte di Diego in circostante così angoscianti - isolato da chi gli voleva bene e accerchiato da chi gli voleva male - è una cicatrice indelebile nell'anima di Ferlaino: «Per un vero napoletano è impossibile ricordare Diego senza commuoversi. Lacrime di gioia per i momenti indimenticabili che ci ha regalato, lacrime di dolore per come lo hanno lasciato morire», dice l'uomo che trasformò in realtà il sogno di poggiare la Mano de Dios sulla testa dei napoletani. Nel Pantheon dei «veri napoletani», Ferlaino iscrive di diritto 'O Comandante al quale, con l'aiuto del giornalista Toni Iavarone, ha dedicato il libro Achille Lauro il comandante tradito (Minerva Edizioni). Fu proprio grazie all'appoggio del grande armatore che il giovane e brillante Corrado Ferlaino riuscì, era la fine degli anni '60, a impadronirsi del pacchetto azionario di maggioranza del Napoli che (con l'eccezione di brevi periodi di «pausa», causa vicissitudini giudiziarie) gli consentì di rimanere ai vertici societari per oltre un trentennio.

La fine degli anni '90 per il presidente coincisero con l'addio al calcio: la gloria ormai sbiadita come in una vecchia fotografia. Stessa parabola di 'O Comandante, l'alter ego inconfessabile di cui Ferlaino è prigioniero, pur se in una gabbia fatta di ammirazione e gratitudine. Tanto da trasformare un freddo tecnico del cemento come Ferlaino in un caldo narratore pieno di passione. Verità e leggenda si rincorrono. Al pari delle vite di Achille e Corrado. Le loro esistenze si sono incrociate spesso. Esattamente come i loro populismo. Le loro ambizioni. Il loro cinismo. Personalità forti. Dal talento «selvaggio».

Da una parte 'O Comandante Lauro che in campagna elettorale regalava al popolo partenopeo la scarpa destra, per poi consegnare la sinistra solo nella fase post-voto; stessa procedura anche con le banconote: metà prima di mettere la scheda nell'urna, l'altra metà a spoglio avvenuto. Do ut des a fiducia limitata. Trionfo della contabilità umana del fifty-fifty, sentimentalmente ripartita tra debito e credito. Dall'altra parte O' Ingegnere Ferlaino che, a 24 ore dalla scadenza del calcio mercato, presentò in Lega una busta che avrebbe dovuto contenere il contratto di Maradona, ma che invece era vuota. Poi, qualche ora dopo, a Barcellona, l'accordo con Diego. Segue il rientro precipitoso in Italia e la sostituzione, nella notte, della busta farlocca con quella vera.

Presidente, ma è vera questa storia della «busta sostituita nella notte»?

«Verissima».

Vuole dire che l'acquisto del calciatore più importante del mondo avvenne con una modalità degna di un film dell'agente 007, con lei nelle vesti di James Bond?

«Devo ammettere che l'avventura fu abbastanza cinematografica».

Ci racconti la trama.

«Era il 1984. Maradona giocava nel Barcellona. Nell'ambiente si diceva che tra l'argentino e il club catalano il rapporto fosse tutt'altro che idialliaco. Insomma, non c'era feeling. Ma erano solo voci. Però noi cominciammo a insospettirci».

Sulla base di cosa?

«Il Barcellona doveva fare cassetta. E propose, ovviamente in cambio di un ricco cachet, fare un'amichevole contro il Napoli. Ok - rispondemmo noi - a patto che giochi Maradona. E loro: No, Maradona non scenderà in campo. I sospetti allora divennero quasi una prova».

Allora lei che fece?

«Spedii il mio braccio destro, Antonio Juliano, a Barcellona con l'incarico di acquistare Diego. Juliano prese casa a Barcellona e trattò per circa un mese. Poi, l'agognata telefonata: Presidente, è fatta!. Ma proprio quel sabato il mercato-calciatori stava per concludersi. Allora mi precipitai in Lega consegnando una busta che avrebbe dovuto contenere il contratto di Maradona. Che però, in realtà, non aveva ancora firmato nulla».

Fine primo tempo del «film». Inizio del secondo tempo...

«Noleggio immediatamente un volo per Barcellona. Arrivo lì e incontro Diego. Lui firma il contratto e io ritorno immediatamente in Italia. Mi precipito in Lega. Fortunatamente era domenica. Non c'era nessuno. E così, grazie alla collaborazione di un metronotte di guardia all'ingresso, sostituimmo la busta vuota con quella piena».

E fu l'inizio dell'epopea Ferlaino-Maradona. Napoli vi venerava.

«Maradona miracoloso come San Gennaro. Io, dopo aver visto giocare Diego, mi accontentai di tirare un sospiro di sollievo...».

Motivo?

«Mi era rimasta nelle orecchie la frase sibillina di un barista catalano che a Barcellona, servendomi un whisky, mi aveva detto: 'Avete preso Maradona? Vi abbiamo rifilato un bel fiasco. Grazie per tutti i miliardi che ci avete dato'».

Per fortuna del Napoli, e per tutti gli amanti del calcio, le cose andarono diversamente.

«L'affare l'avevamo fatto noi. Il più grande giocatore del mondo giocava nel Napoli. E i risultati si videro».

Ma lei, da giovane, ha mai giocato a pallone?

«Sì, ero anche bravino».

Ma un po' «indisciplinato» visto che nel '64 fu squalificato a vita per aver picchiato l'arbitro.

«Cose che capitano. Ma poi fui amnistiato».

Irruento anche alla guida. Come pilota andava alla grande.

«Le auto sportive erano la mia passione. Ho vinto molte gare a livello agonistico».

Anche come imprenditore pigiava forte sull'acceleratore.

«Dopo la laurea in ingegneria, fondai un'impresa di costruzioni. Era l'epoca del boom. L'Italia appariva un Paese in crescita. A Napoli c'era grande fermento».

Tentò anche l'avventura come produttore cinematografico, ma non si ricordano risultati esaltanti. Eccetto un lungometraggio dedicato a Che Guevara.

«Non è stata l'unica pellicola. Ma ho capito che non era quella la mia strada. Ognuno deve fare il mestiere per il quale è portato».

Diciamo che l'attuale è presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, in fatto di film, ha fatto decisamente meglio di lei.

«Sì, lo ammetto. In questo campo è stato più bravo di me. Ma solo in questo campo».

Lei segue il Napoli, ha qualche consiglio da dare al suo collega De Laurentiis?

«Resterò sempre il primo tifoso del Napoli. Stimo De Laurentiis. Quando sono d'accordo con lui, lo dichiaro pubblicamente. Se invece sono in disaccordo, me sto zitto».

I giocatori campani (Insigne, Immobile, Donnarumma) si sono comportati bene all'Europeo.

«Merito di Mancini che è un ottimo CT e li ha trasformati in punti di forza di una grande Nazionale».

È vero che si fece «raccomandare» dal suo amico Ciriaco De Mita per non essere candidato alle elezioni?

«Ha detto bene: per non essere candidato. De Mita mi voleva capolista per la Dc. Avrei garantito al partito un sacco di voti e sarei stato sicuramente eletto. Ma non ritenevo etico sfruttare la mia popolarità a fini politici. Per questo mi sono tenuto sempre fuori dai partiti. Non so quanti avrebbero fatto lo stesso al mio posto».

È corretto dire che Ferlaino stava ai cantieri edili come Lauro stava alle compagnie di navigazione?

«Due famiglia del Sud che hanno dato dignità a un Mezzogiorno ingiustamente vilipeso da quelli del Nord».

Eppure Napoli sembra averla rimosso il ricordo di Lauro.

«È vero, a Napoli ci sono strade dedicate a tutti, meno che a qualcuno della dinastia Lauro».

Di qui il titolo del suo libro, Achille Lauro il comandante tradito. Tradito da chi?

«Da troppe persone. Ingiustamente. Ma il mio è un atto d'accusa anche contro le istituzioni. Achille Lauro è stato il primo 'sindaco metropolitano', monarchico convinto, fondatore di un partito personale, creatore della flotta navale più potente d'Europa, editore illuminato».

E poi il Napoli, serbatoio di voti e passioni.

«I tifosi lo amavano. Ma nel libro racconto anche il Lauro privato: la famiglia, le tante avventure romantiche e non, ed il tenero amore con la vera donna della sua vita, un nome fino ad oggi mai rivelato».

Il «laurismo» per alcuni storici della politica è, nella migliore delle ipotesi, sinonimo di clientelismo e, in quella peggiore, di commistione col malaffare. Lei, invece, cosa ci vede di buono?

«La possibilità, per noi meridionali, di guardare gli industriali del Settentrione senza più complessi di inferiorità. Orgogliosi del nostro ingegno e della capacità manageriale di gestire aziende leader nel mondo».

Anche Ferlaino, con il suo Napoli delle meraviglie, ha dato a questa emancipazione culturale un contributo sportivo non indifferente.

«Strappare la leadership calcistica a Milan, Inter e Juventus non era impresa facile. Ma ce l'abbiamo fatta».

Di recente ha dichiarato: «Prima di diventare presidente del Napoli ero ricco, avevo la barca e fuoriserie. Quando mi sono dimesso dalla carica sono andato via con una Twingo».

«Col Napoli ci ho rimesso un sacco di soldi. Ma le gioie e le soddisfazioni che ho ricevuto non hanno prezzo. Se penso al corteo celestiale che ci accolse a Napoli il 17 maggio 1989 dopo la conquista della Coppa Uefa contro lo Stoccarda e alla gioia di tutti i nostri emigranti in Germania, mi vengono ancora i brividi».

Ha perdonato l'arbitro Sergio Gonella?

«Poverino. È morto tre anni fa».

Ma per tutto il tempo in cui è stato in vita, lei non lo ha mai perdonato.

«Per colpa sua nel '71 perdemmo lo scudetto. A Milano, contro l'Inter, dette un rigore inesistente contro di noi».

Sudditanza psicologica verso il grande club di Moratti?

«Aveva espulso l'interista Burnich e chiudemmo il primo tempo in vantaggio 1 a 0. Nell'intervallo Mazzola, figlio di buona donna con un'oratoria da grande avvocato, andò nello spogliatoio di Gonella dicendogli che aveva commesso un grave errore e che stava compromettendo la sua carriera arbitrale. Gonella rientrò in campo e cominciò a fischiare a senso unico. Concesse ai nerazzurri un rigore inesistente. Poi il nostro Zoff fece una papera, tra le poche della sua eccezionale carriera. Perdemmo 2 a 1. E addio scudetto».

Il 18 maggio ha compiuto 90 anni. Teme la morte?

«No. Credo nell'aldilà. Ma sono cristiano per convinzione, non per opportunismo. Il Signore mi ha regalato il dono della fede e la gioia di una vita intensa».

Riempita, tra l'altro, da 4 matrimoni e cinque figli.

«La luce di una moglie può spegnersi con un colpo di interruttore. Ma quella dei figli rimane sempre abbagliante».

Ci sveli, in conclusione, un sogno impossibile.

«Andare a Buenos Aires con un investigatore privato e risolvere il giallo della morte del mio Maradona. Ma so bene che la sua fine rimarrà un rebus. Per sempre».

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