McIlroy e i suoi "fratelli": la riscossa dei baby golfisti

McIlroy e i suoi "fratelli": la riscossa dei baby golfisti

Non era mai successo. Strano, ma nel golf da un po’di tempo a questa parte succedono cose che non erano mai successe. Un ragazzo nordirlandese, Rory Mcllory, che sembra uscito dal film Tin Cup (ama giocare persino con ferri un po’ d’antan ) ha vinto, a 22 anni, nientemeno che un Major come l’Us Open. E per ritrovarne un altro come lui, anzi meglio di lui, bisogna andare indietro fino al 1923 quando un tale, mitico, Bobby Jones lo vinse a 21 anni.

E non era mai successo che l’Italia del golf, ridestatasi dopo anni di torpore appesi ai Dassù e ai Mannelli e poi, in tempi più recenti a Rocca, si facesse avanti nelle Money List e nella ribalta mondiale finalmente e sistematicamente con dei giovani, i fratelli Francesco ed Edoardo Molinari e addirittura un giovanissimo, il diciottenne Matteo Manassero. Di fatto assistiamo, anche se stiamo facendo finta di nulla, ad un cambiamento epocale. In un mondo che va alla rovescia, forse si è finalmente rovesciata anche la clessidra dell’età e dei luoghi comuni. E il golf, comunemente ritenuto uno sport per vecchi, dai primi colpi di bastone tirati, secoli fa tra i greggi di pecore al pascolo in Scozia, ad oggi, sembra diventato vivaddio uno sport per giovani. Senza viaggiare troppo con la fantasia è un dato di fatto che Manassero non abbia nulla da invidiare, anzi sia riuscito ad appaiarsi ai rookies, i giovani promettenti esplosivi, che, in passato avevano fatto diventare grande, golfisticamente parlando, solo un’altra nazione in Europa, la Spagna. La Spagna negli Anni Settanta e Ottanta, cioè prima quella dell’indimenticabile Severiano Ballesteros (a 23 anni si portò a casa, primo europeo ad indossare la giacca verde, il Masters di Augusta) e poi quella del suo erede diretto, Josè Maria Olazabal. Che a diciotto anni, ancora da junior, si permise di vincere il British Amateur Championship e l’anno dopo alla prima sua stagione da professionista arrivò secondo nella Money List. E adesso, a 45 anni, è al timone della squadra continentale di Ryder Cup che sfiderà la formazione americana l’anno prossimo.

Stiamo facendo finta di nulla ma non si può far finta che sia accaduto per caso questo cambiamento epocale. Che sia accaduto per caso che a tre anni e mezzo, avete letto bene, tre anni e mezzo Matteo Manassero, da Negrar, sul tracciato di Villafranca, cominciasse non solo ad impugnare i primi drive ma anche, cosa leggermente più complicata, a tirarli dritti e non addosso a sua mamma.

E che, due anni più tardi, traslocato a Gardagolf e sorvegliato a vista dal maestro Maestroni (nomen omen) cominciasse a dimostrare che era praticamente pronto per il Tour. Non è un miracolo solo italiano, intendiamoci questo dell’elisir di giovinezza che è stato distribuito a piene mani e alla luce del sole sui fairways del mondo. Non è un miracolo anche perché, a parte la discesa repentina delle pance che non davano proprio un’idea di uno sport atletico, a parte il miglioramento dei congiuntivi e delle lingua inglese, fra i pro di tutto il mondo, sono cambiati in modo epocale i golfisti.

Non i golfisti che si annidano negli angoli bui delle club house per criticare il filetto dello chef o per giocare a burraco, anziché uscire allo scoperto e cimentarsi sul tee-shot.

Ma i golfisti come quelli che sanno di esseri atleti e con lo scrupolo e con la stessa consapevolezza degli atleti si allenano, studiano, si perfezionano. Se sono ragazzi in gamba come Roy, Matteo e i Molinari’s o se sono giovani mamme dalla verve straordinaria come Diana Luna. L’unica Luna che, con quello che vince, sta riflettendo la luce più azzurra.

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