Il medico dei pazzi che combatteva una legge "folle"

I fan della «Basaglia» consideravano Mario Tobino un retrogrado. Ma lui aveva visto giusto: vedeva nei suoi malati una famiglia che non avrebbe mai voluto abbandonare. Ma la sinistra miope lo espose alla gogna mediatica. A danno dei pazienti

Il medico dei pazzi che combatteva una legge "folle"

Mario Tobino (1910-1991) visse sino in fondo vicino ai degenti dell’ex psichiatrico di Maggiano, il manicomio nelle campagne di Lucca. Sebbene in pensione, andava spesso in ospedale, dove aveva ancora studio e camera: un privilegio concessogli dall’allora presidente della provincia di Lucca Giuseppe Bicocchi, un democristiano che lo ammirava, e gli era solidale riguardo alla 180, la legge Basaglia che aveva smantellato i manicomi senza creare strutture alternative.

L’appartamento, che lui chiamava «le due stanzette», si trovava nella parte centrale e storica del manicomio, un ex convento che, nella seconda metà del Settecento, la Repubblica di Lucca adibisce a Spedale per i Pazzi di Fregionaia, vecchio toponimo della località. Una costruzione imponente, circondata da mura come una fortezza, e dislocata in più blocchi. Gradualmente abbandonata, la «rivediamo» nelle pagine di Tobino. Presto, tuttavia, sarà ultimato il restauro del padiglione dove si trovava il suo appartamento, operazione fortemente voluta dal presidente della Fondazione intitolata allo scrittore, Andrea Tagliasacchi.

Il legame fra Tobino e l’ex manicomio era intenso. In una sua poesia scrive che aspettava lì perfino gloria e morte. Ma la sua morte voleva che fosse accolta con allegria, come un suono di campane, una festa. Negli ultimi anni di vita mi condusse spesso con sé a visitare i degenti dell’ex psichiatrico. Voleva dimostrare, facendomi parlare con gli infermieri con i quali aveva a lungo lavorato, che lui, gli ammalati, li lasciava liberi assai prima che fosse emanata la legge Basaglia. Cosa che gli infermieri confermavano, aggiungendo che Tobino aveva introdotto questo metodo in anticipo su ogni altro medico. Ma lasciare gli ammalati liberi all’interno della struttura non significava, beninteso, abbandonarli a loro stessi; erano infatti controllati e seguiti dal personale. Ricordo il modo, più di sguardi che di parole, con cui Tobino si intratteneva coi degenti che, subito, prendevano a parlargli. Avevo l’impressione che non tutti lo conoscessero per nome. C’era chi lo chiamava «Tubino», «Tonino» o «dottore». Alcuni gli chiedevano sigarette e denaro. Lui gli stava di fronte, l’aria grave e affettuosa. Ma, nel suo sguardo, c’erano smarrimento e malinconia.

La sinistra dell’epoca, per via della sua opposizione alla 180, l’aveva più volte posto alla gogna; in una trasmissione televisiva gli venne addirittura fatta la caricatura con una benda a un occhio come a un pirata. Lui ne soffriva e si sentiva tradito da quelli che erano stati i suoi ideali antifascisti, che ritroviamo ne Il clandestino e in altre opere. Ben lungi da me l’intento di fare politica. Sto solo cercando di raccontare il dramma di uno psichiatra, e scrittore tra i più grandi del Novecento, il quale vedeva nei suoi ammalati una famiglia che mai avrebbe pensato di dover abbandonare a causa di una politica che, oltre a sostituirsi alla scienza, si sostituiva anche all’amore e alla solidarietà verso i deboli e gli emarginati.

Poco prima di morire, Basaglia disse che la sua legge andava migliorata, se non rivista. Non ne ebbe il tempo e nulla si fece in tal senso. Altro rovello di Tobino, che ritrovo in un suo scritto dal titolo Diario di un vecchio medico di manicomio. Sono gli estratti di un convegno tenuto a Gorizia nel 1986, per il quale lui, non potendo partecipare fisicamente, inviò un racconto-verità al collega Armellino Visani, che definisce «medico che a volo afferra i sintomi, al corrente di tutto. E inoltre trova il tempo di condurre la Società Torricelliana di Faenza». Durante una delle nostre visite all’ex psichiatrico, un ammalato venne a dirci che era morto padre Matteo, il cappuccino che abitava dirimpetto all’appartamento del medico-scrittore. Grande fu lo sconforto di Tobino. Per anni s’erano frequentati, conversando su tutto. Ancora in questo estratto narra infatti che il frate, appena lui tornava all’ospedale, gli andava incontro per comunicargli le novità.

Ecco una sequenza di quei loro dialoghi. «Questa settimana - gli dice il frate - ha battuto nero. Due se ne sono ammazzati, uno impiccato, e l’altra si è gettata dalla finestra dell’infermeria. Ha picchiato il capo ed è morta. Quello che si è impiccato aveva trentatré anni, il N., lo doveva conoscere. Giù, vicino alla chiesetta, in quello stanzone rimasto vuoto, un tempo doveva essere una stalla. Con la cinghia dei pantaloni, è montato su una specie di cassetta, ha legato una coda della cinghia alla trave. Coi piedi ha scostato la cassetta. Lo ha trovato un malato». Il racconto prosegue con Tobino che, salutato il frate, si ritrova solo «nella stanzetta che precede la camera da letto. Intorno a me profondo silenzio. D’improvviso una voce, netta e purtuttavia con qualcosa di canto:

“Da due a tremila, da due a tremila!”.
È come un pallone di gomma che rimbalza da una parete all’altra. Ogni volta mi sfiora.
“Da due a tremila! Da due a tremila!”.

Sì, sì, lo affermò Trabucchi, ripetutamente lo scrisse, pubblicò il suo probabile conto su giornali e riviste. Ed eravamo nel 1982. Me lo ricordo con esattezza. Ora andrò a rivedere, ricercherò i ritagli di stampa che lo stesso Trabucchi mi inviò, Cherubino Trabucchi, per anni e anni direttore dell’ospedale psichiatrico di Verona». Intanto una furia di domande lo insegue. E rimprovera se stesso di non avere il coraggio di fare qualcosa a difesa delle vittime della 180. Di comportarsi eroicamente come i suoi amici partigiani Aldo Cucchi e Mario Pasi, entrambi torturati dai nazisti, ma non parlarono, non tradirono gli amici di lotta. Con rammarico e disperazione si chiede di provare almeno a conoscere «il numero dei morti, delle vittime di questa legge progressista, libertaria, scientifica, rivoluzionaria, della massima civiltà». Allora, conclude, ho vergato queste solitarie righe. Piega il foglio, lo ripone nella busta o lo invia all’amico Armellino Visani.

Tobino non è dunque soltanto racconto e poesia, ma è anche impegno civile; un impegno

che affida alla forza delle parole la sua passione a difesa della vita e dei valori in generale. Valori che non dovrebbero avere colore politico, ma essere, semmai, il tramite di un confronto e un dialogo. Anche sulla 180.

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