Carmine Spadafora
da Napoli
Un anziano sventola una bandiera azzurra del Napoli ma, per una volta, al posto dei ricci di Maradona, cè il faccione bonario di Mario Merola, il re della sceneggiata, morto domenica sera in ospedale, dopo cinque giorni di agonia. Davanti alla Basilica della Madonna del Carmine, a migliaia, per tutta la giornata di ieri, hanno atteso pazientemente di poter entrare per rendere omaggio all'artista.
Napoli non sa darsi pace per la morte di Merola, lo credeva - lo voleva, immortale. «Muore tanta gente cattiva, perché Gesù ha voluto proprio lui?», dice Concetta, 72 anni, venuta a piedi da San Giorgio a Cremano (comune alle porte di Napoli), «perché avevo fatto un voto, se fosse guarito, ma ho deciso di scioglierlo lo stesso». Al Carmine - dove si tennero i funerali di Totò -, c'è la Napoli del Mercato, il quartiere dove nacque «O zappatore», ma, anche delle zone «nobili»: Chiaia, il Vomero, Posillipo. I Merolafan, arrivano da ogni parte della Campania ma anche da altre regioni italiane. Ognuno ha in mano un cartello, oppure una bandiera, un fazzoletto, una foto.
Quando Merola è già nel Carmine, arrivano a gruppi, giovani e anziani. Un applauso, lungo, commovente, quando, dal vicino porto, fanno il loro ingresso nella Basilica, gli «scaricatori», il primo mestiere di Marittiello. Antonio, 44 anni, dice: «Merola non ha mai dimenticato le sue origini. È rimasto sempre uno di noi. Un uomo umile, legato alle tradizioni del cuore e dell'amore».
E cè la Napoli del Pallonetto di Santa Lucia, che ha in Massimo Ranieri il suo più importante esponente. Per ricordare il maestro scomparso, il grande «scugnizzo» usa una metafora, legata a uno dei suoi successi più importanti. «Pensare che Mario Merola non cè più è come pensare che non esiste più l'erba di casa mia, il mondo in cui sono cresciuto e diventato artista, la Napoli in cui ho tirato i primi calci a un pallone, in cui mi sono innamorato per la prima volta».
Commosso, il napoletano adottivo, Renzo Arbore. «La sua forza era la sua grande autenticità. Era uno del popolo che cantava le canzoni del popolo. Ho avuto la fortuna di sdoganarlo, pur essendo un napoletano borghese, molto tempo prima che lo sdoganassero poi tutti».
«È calato il sipario», dice in lacrime il maggiore dei tre figli di Merola, Francesco, compagno di lavoro del re della sceneggiata. «Mario Merola non era solo mio padre: era il padre di tutti i napoletani», dice l'altro figlio, Roberto.
E piange il suo pupillo, Gigi D'Alessio. «Era tanto grande quanto umile». Proprio al suo maestro, nel '92, D'Alessio dedicò il suo primo successo: Cient'anne. Di lui, l'ultimo re di Napoli, disse. «Perderò un pianista, ma il mondo guadagnerà un artista».
Lo ricorda cosi, il regista Dino Risi, a Napoli per il restauro del film Operazione san Gennaro, con Totò. «A me sono sempre piaciute le cose semplici, vere, e Mario Merola è stato un grande nel suo mondo». Lo piange il mondo della cultura.
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