Con messaggi e foto il telefonino ci tiene in ostaggio

Che dire, caro Paolo, di questa storia dei telefonini? Secondo i pubblici ministeri, la polizia, i carabinieri e i giornalisti, se un cellulare è localizzato, che so?, a Capri colà deve necessariamente essere anche il proprietario. Fossi portato all’assassinio, lasciato il telefonino sul comodino o in cucina, ucciderei qualcuno a venti chilometri di distanza sicuro di non essere sospettabile perché necessariamente in casa anch’io. Mi sa che scriverò in proposito un paio di racconti. Nel primo, il protagonista si comporta come or ora detto. Nel secondo, una terza persona ruba un cellulare, lo porta con sé e compie il delitto sicuro di sfangarla.
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Così doveva andare a finire, caro Mauro. Quando dei 604 milioni per spese di giustizia, 272 se ne vanno in intercettazioni non è che si possa tanto menare il can per l’aia: il telefonino è diventato l’ombelico delle inchieste giudiziarie. Tutto il resto, indagini, controlli, verifiche, interrogatori, ricerca delle prove, il lavoro (e l’arte) dei Ciccio Ingravallo e dei Francesco Santamaria, tanto per ricordare i due popolari commissari usciti dalle penne di Gadda e Fruttero e Lucentini, zero. Zero, di conseguenza, il fattore umano. L’indagine si è fatta tecnologicamente asettica. In camice bianco. Tutto un tabulato e uno sbobinamento di intercettazioni. La cui trascrizione - elemento probante di primissima scelta - è il vertice dell’impersonalità dell’inchiesta, perché resta assente, dallo scritto, quel che conta e pesa assai in un colloquio: l’intonazione, il tono e l’espressione di una voce. Dalla quale risulta subito, ad esempio, se una frase è detta in tono scherzoso o minaccioso e grazie alla quale si capisce al volo se una mala parola è detta con volontà di insultare o meno. Sai, Mauro, quella volgarità che comincia per esse e che è d’uso comune, ampiamente sdoganata potremmo dire? Se leggo in una trascrizione «sei un vecchio esse», come posso stabilire se la locuzione esprime disprezzo o bonaria, addirittura affettuosa partecipazione? Ed è così, ed è con questo andazzo che il telefonino è diventato il vero soggetto delle indagini. Quando i simpatici piemme milanesi affermano - triangolazioni goniometriche alla mano - che la tal escort Ninì Tirabusciò è entrata nella villa del peccato (o degli orrori?) di Arcore alle 20 e zero tre uscendone alle 23 e zero nove, procedono, come tu acutamente rilevi, alla antropomorfizzazione del telefonino: clone, ai loro occhi, della tal Ninì Tirabusciò. E se Ninì Tirabusciò l’avesse prestato a Trucula Bonbon essendo il suo, suo di Trucula, momentaneamente senza carica o col credito della scheda esaurito? Non parliamo poi dei messaggini, anche quelli spulciati (l’operatore telefonico ha l’obbligo di conservarli in archivio per una cinquantina d’anni, mi pare. Ma è giusto? Ma non è contrario ai Diritti Umani Non Negoziabili?) uno per uno dalla così detta autorità inquirente. In un film, credo Amici miei, dei burloni si impossessano di una Nikon lasciata su un tavolo da una turista giapponese scattandosi poi a vicenda, ma non prima d’essersi calate le braghe, delle fotografie. Che la turista si ritroverà, una volta a casa, nel rullino (quando c’erano i rullini). Non è lo stesso per gli mms? I tavoli dei ristoranti della società rampante, per non parlare di quelli dei breefing e riunioni aziendali, abbondano di cellulari lasciati lì, in attesa dello squillo. Che ci vuole, cogliendo un momento di disattenzione, a prenderne uno e digitare: «Papi non bada al prezzo, fatti sotto» inviandolo poi a una utenza a caso? Scrivi quei racconti, caro Mauro: saranno da brivido.

Visto che ci sei, magari ricorda che l’Italia è la patria del diritto, che abbiamo la Costituzione più bella del mondo e la nostra Magistratura è la più democratica che ci sia e dunque se spende 272 milioni l’anno in spiate - 500 e passa miliardi di lire - è per il nostro bene (io il telefonino lo butto. Tu?).
Paolo Granzotto

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