Mi ricordo pellicce verdi

di Margherita Tizzi

Sintetica o vera? Se da una parte c'è chi sostiene che non abbiamo più la necessità di ricorrere al pelo di animali per vestirci, perché lo sviluppo tecnologico ha creato tanti tipi di tessuti, d'altra c'è chi dice che, in un mondo dove si mangia carne e si producono accessori in pelle, non si capisce come mai non si debba indossare una pelliccia. Inoltre, nella produzione dei materiali «eco» sono coinvolti processi chimici il cui prodotto finale è un oggetto non riciclabile e a volte molto costoso, a differenza della pelliccia, durevole e biodegradabile. E i peli poveri, come il montone, l'agnello o il lapin, sono pellicce di animali che vengono comunque utilizzate per l'alimentazione umana, permettendo di evitare «stragi» inutili. Però sembra che la produzione di pellicce e pellami crei molti più gas serra e inquinamento dell'aria e dell'acqua di qualsiasi altra industria tessile. Inoltre, scriveva Tansy Hoskins per il Guardian nel 2013, «una pelliccia prelevata direttamente dall'animale morto va incontro alla putrefazione, quindi l'industria tratta questi materiali con un'ampia gamma di sostanze chimiche, e a risentirne sono i clienti e gli operai che li lavorano». Per non toccare il tasto della vendita di capi con applicazioni in pelliccia vera spacciata per sintetica, come i migliaia sequestrati in Chinatown, a Milano. Questo perché in alcuni paesi, come la Cina, c'è una grande quantità di animali allevati per realizzare inserti in pelliccia, un processo che richiede costi più bassi rispetto alla produzione di quella sintetica. Ma per poter utilizzare parti di animali, i produttori devono fornire la documentazione che testimonia il mancato utilizzo di tecniche cruente per la cattura, il mantenimento e l'uccisione degli stessi, documentazione che spesso non c'è proprio perché agli animali non si risparmia alcuna sofferenza. Ed ecco il perché della contraffazione. Ed ecco perché la Norvegia ha vietato gli allevamenti di animali da pelliccia, che dovranno chiudere entro il 2025, un giro d'affari che frutta attorno ai 46 milioni di dollari l'anno. E, dopo l'apripista Stella McCartney e tanti altri luxury brand, anche Gucci ha annunciato che non utilizzerà più pellicce animali dalla primavera estate 2018, entrando a far parte della Fur Free Alliance. Non facciamo, però, di tutta l'erba un fascio. «La pellicceria Annabella utilizza solo pelli che si possono reperire alle aste e sui mercati internazionali e che sono dichiarate commerciabili dalla Convenzione di Washington, che, dal 1973, tutela e disciplina il commercio delle specie di fauna e flora minacciate di estinzione, e ha come obiettivo la conservazione delle stesse e ne garantisce un'utilizzazione sostenibile - spiega Riccardo Ravizza, amministratore delegato di Annabella SpA -. Il pelo del giaguaro e del leopardo, ad esempio, non solo è stato proibito, ma per legge non si possono nemmeno esporre in vetrina capi realizzati con quel materiale. Inoltre, abbiamo aderito al Sustainable Luxury Working Group e all'Animal Sourcing Principles, dunque pretendiamo dai nostri partner la massima trasparenza sulla filiera, mentre le lavorazioni sono esclusivamente made in Italy». Insomma, l'argomento è vasto e l'etica barcolla. Ognuno la pensi come crede, ma, è il caso di dire, rispetti anche le opinioni altrui.

Non si può insultare o definire una persona «assassina» (vedi il caso di Chiara Ferragni) solo perché indossa una pelliccia. Tanto meno se ne può vietare l'ingresso in un bar (vedi il caso di Monza). Da domani varrà lo stesso anche per chi calza una scarpa o porta una borsa di pelle?

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