«La mia amicizia con Wojtyla salendo sulle vette delle Alpi»

«La mia amicizia con Wojtyla salendo sulle vette delle Alpi»

Giovanni Paolo II, il «suo» papa, diventa Beato. Come vive queste ore?
«Sono ore di attesa, di grande gioia e di commozione, come suppongo sia per tutti coloro che hanno conosciuto ed amato il Papa, una figura particolarmente viva nel cuore della gente. Ma l'atto solenne della beatificazione, quello che sancisce ed ufficializza con l'autorità del Sommo Pontefice l'eroicità delle virtù, è il coronamento di un fatto che per me, come per altri, è avvenuto il 2 aprile 2005, quando il Signore chiamò a sé il suo Servo buono e fedele. Santi si diventa nella vita, non dopo».
Torniamo indietro, al 1989, quando Lei divenne la Guida Alpina del primo Papa polacco della storia. Può descriverci il suo primo incontro con lui?
«Il mio primo incontro risale al 1986, quando si celebrò ad Aosta il secondo centenario della conquista della vetta del Monte Bianco. Dovetti occuparmi in prima persona dell'organizzazione della visita pastorale del Santo Padre. Al suo arrivo nel capoluogo regionale, con lui non ci fu che una timida stretta di mano ed egli mi regalò uno sguardo che mi colpì molto. Al termine della partenza, non volli andare a salutarlo con le autorità previste. Non potendo essere presenti tutte le persone che avevano collaborato con me, preferii vederlo partire da lontano, lasciando esterrefatto il capo della vigilanza pontificia, il Comm. Cibin. Mai avrei immaginato che da quel mio personale sacrificio sarebbero scaturiti una serie di fatti che mi permisero di rimanere con il Papa in modo impensabile.
Il secondo fu inaspettato e straordinario. Andato in Vaticano il 1° maggio 1989 per progettare con Monsignor Stanislao Dziwisz, allora segretario particolare, la prima vacanza pontificia, il Papa mi ricevette per salutarmi mentre era in corso il Concistoro per la presentazione delle cause di canonizzazione di cinque beati. Un fatto alquanto eloquente per svelare la ricca umanità di questo Papa e la sua assoluta libertà interiore. Con l'arrivo per la vacanza, era la sera del 12 luglio 1989, l'emozione si trasformò in commozione. Ma nel giorno successivo, l'abbigliamento per la prima passeggiata, fu punto di convergenza di una reciproca passione, l'inizio di una grande amicizia».
A Lei dobbiamo la bella definizione di Teologo della Montagna riferita a Giovanni Paolo II. Da cosa è scaturita?
«Il Papa Teologo della Montagna è un'attribuzione che ancora mancava ad un Papa. Neppure Pio XI, pur essendo grande scalatore di quattromila, ebbe questo titolo. Se papa Ratti, infatti, quand'era ancora monsignore scalò il Monte Bianco - una delle vie porta il suo nome - Giovanni Paolo II parlò molto anche della montagna, vedendo in essa la rappresentazione simbolica di un movimento ascensionale dello spirito, quello stesso che egli cercò di trasfondere nella Chiesa contro ogni potenza antievolutiva, trasversale e disgregante. Per questo mi piace anche vederlo come L'Uomo delle alte vette, il titolo che ho dato ad un mio libro su Giovanni Paolo II. Il volume, giunto alla terza edizione aggiornata e curata dall'Editrice Le Mani di Recco, è in distribuzione in questi giorni».
Può raccontarci qualche episodio significativo delle vostre escursioni?
«Gli episodi sono molti, tutti sono significativi e non possono stare in una risposta. Vanno dagli incontri con le persone, alle sue riflessioni, al modo di pregare, di contemplare, di riposare. Del resto, essi acquistano una particolare risonanza nel contesto immediato, e, nel riportarli, perdono un po' della loro fresca immediatezza. Il Papa, nei giorni della sua vacanza, non parlava molto, ma osservava tutto; contemplava ogni cosa e il suo volto si illuminava. Comunicava più con lo sguardo che con le parole. Ma anche con i gesti più semplici, come fermarsi sui sassi di un torrente per recitare l'Angelus, allo scoccare del mezzogiorno, oppure puntare il dito verso il cielo per indicare un oltre verso cui camminare, od abbracciare una rudimentale croce, fatta di due tronchi di vecchio larice, come avvenne un giorno».
Prego, Eccellenza, racconti.
«Era il 17 luglio del 1991. La giornata era delle peggiori che si potessero immaginare. Acqua, freddo e nebbia strisciante sui costoni rendevano impensabile ogni uscita per tutti, ma non per il Papa che volle rispettare il programma stabilito. La meta era l'alpe di Comboé, ai piedi della svettante Becca di Nona che sovrasta la città di Aosta.
Si partì con il consueto pick-up. Ad un certo punto la strada sterrata ed infangata rallentò di molto l'avanzare del mezzo. Affrontare poi a piedi la ripida salita del vallone, selvaggio e ad un tempo affascinante, non fu cosa semplice. Dal fitto bosco, quasi impenetrabile, l'acqua sgrondava sui nostri ombrelli, aperti a mala pena. La nebbia ora s'ispessiva ora si diradava, tuttavia, tra un piovasco e l'altro, si giunse ugualmente all'alpeggio previsto. Sul limitare del pascolo un'antica e rustica croce attendeva il Papa. Allungando il passo, la raggiunse in fretta e, abbracciatala, vi rimase così, immobile, per una decina di minuti. A quella vista, i pochi accompagnatori si allontanarono per rispetto, lasciandolo totalmente solo, chiuso nel suo misterioso e impenetrabile silenzio, abitato soltanto da una visibile e profonda sofferenza. Nel riprendere il cammino, vedemmo che il suo volto si era trasformato, diventato tanto simile al biblico Uomo dei dolori che ben conosce il soffrire».
Cosa disse Giovanni Paolo II?
«Quel giorno egli parlò poco, ma soffrì molto. Anche il pasto, consumato sotto una cengia, fu scarso. Fu necessario asciugare i suoi scarponi e qualche indumento al calore di un improvvisato falò. Passata la perturbazione il sole era ritornato particolarmente caldo e risplendente ed il Papa poté riposarsi sui bordi tranquilli del tortuoso torrentello. Giunta la sera, per il rientro non volle modificare il sentiero, come sarebbe stato possibile. Volle ripassare accanto a quella stessa croce, ripercorrere le asprezze di un sentiero che la mattina aveva calpestato in salita e interpretato come simbolo di un comune itinerario spirituale, quello che egli stesso aveva un giorno indicato ai malati nel dire loro: “Ricordate la massima ascetica Per crucem ad lucem, cioè: attraverso le sofferenze della Croce si giunge alla beatitudine della luce”. Nei giorni successivi, mi parlò spesso di quella uscita. Gli rimase particolarmente impressa nel cuore e nella mente».
La figura di Giovanni Paolo II a distanza di sei anni dalla morte è ancora straordinariamente viva, principalmente nei giovani, a dispetto della differenza generazionale. Come si può spiegare?
«I giovani furono la passione di Giovanni Paolo II, a partire dai suoi anni trascorsi in Polonia, dapprima come semplice sacerdote, quindi come vescovo e cardinale di Cracovia.
Un segreto del suo successo è stato nell'essere un comunicatore avvincente di largo consenso mediatico, ma questo non avrebbe toccato i cuori della masse se non fosse stato un uomo di Dio, convinto e convincente nel prospettare loro la via alta della santità.

Il suo parlare franco e senza aggiustamenti o ambigui opportunismi è quanto i giovani soprattutto hanno sempre apprezzato in lui. Li amava, i giovani, e non li ha mai ingannati con facili prospettive. Loro l'hanno capito più di tanti altri».

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