"La mia azienda nata per caso ora è tra le stelle della Borsa"

Sociologo, figlio di emigranti, ha fondato Interpump, da poco entrata nell'indice Ftse: "Mio padre aveva deciso: dovevo fare il muratore"

"La mia azienda nata per caso ora è tra le stelle della Borsa"

Fulvio Montipò dal nulla ha creato un'azienda che in giugno è stata accolta tra le quaranta del Ftse Mib, il più importante indice della Borsa italiana. La sua creatura, Interpump Group, che ha realizzato 1,37 miliardi di fatturato nel 2019, è leader mondiale nella produzione di pompe per applicazioni industriali e fra i principali gruppi globali nel settore dell'oleodinamica. Un colosso con siti produttivi in Europa, Cina, Russia, Usa, Brasile, Corea, Australia, India e che cresce con una media di tre acquisizioni all'anno.

Presidente e amministratore delegato della multinazionale, Montipò incarna una storia imprenditoriale, e ancora prima umana, che pare uscita dalla penna di un romanziere d'Ottocento, e che sembra più affine al sogno americano che al miracolo italiano. Nato a Baiso in provincia di Reggio Emilia, in una famiglia di emigranti, compie il suo percorso di studi grazie a contributi e sussidi di merito e si laurea in sociologia mentre già lavora. Entra in un'azienda della sua regione e in un lampo ne diventa direttore generale, ma a trent'anni ne avvia una tutta sua grazie a un'idea rivoluzionaria (pistoni in ceramica all'interno delle pompe a pressione per uso professionale), al fiuto del visionario e a una forza d'animo che solo certi trascorsi umani possono imprimere.

Come si passa da una laurea in sociologia alla leadership nel settore delle pompe idrauliche?

«Non lo so dire, non ho la formula. Sono imprenditore per caso. Si è tentati di programmare l'esistenza, ma la vita succede. La mia storia è segnata dalle vicende che la vita impone a tutti, quindi entrano in gioco il caso, il talento se ce n'è e tanti altri fattori che si intrecciano fra loro».

Cosa l'ha spinta agli studi di sociologia?

«La straordinaria passione per l'uomo e di conseguenza per le discipline umanistiche. Forse la ragione più forte è l'imprinting delle mie solitudini di bambino figlio unico».

Papà e mamma erano stagionali in Svizzera

«E quando emigravano io rimanevo un anno con lo zio, uno con mia nonna o un amico dei miei genitori, cambiando letto, piatto, sapori e odori ogni volta. Porto con me le solitudini bambine, la voglia degli altri, il bisogno della loro stima, in una parola del loro affetto, perché il bisogno di farti amare ti aiuta a farti amare. Porto con me gli insegnamenti del borgo che io considero la prima università. Siamo tutti un mix dei nostri giorni vissuti e dei nostri intuiti innati».

Lei lo chiama borgo. Che cosa le ha insegnato?

«Non finirò mai di ringraziarlo. Da lì vengono insegnamenti semplici, sicuri e solidi quali l'onestà, la rettitudine e l'importanza di un forte controllo sociale, perché chi sgarrava le regole veniva subito ripreso. Il centro culturale era la piazza, la sera gli uomini si riunivano a raccontare storie mentre le donne filavano, si narravano imprese di guerra e le vicende dei grandi. C'era l'amore per la famiglia e la propria bandiera. Quelli che tenevano la piazza erano per lo più maestri di vita, i valori che trasmettevano erano precisi e sicuri».

Per esempio?

«Paga i debiti! Ovvero mantieni fede agli impegni che assumi. Sei un buono a nulla era l'offesa più grande, al solo pronunciarla, scattava la rissa».

Fu il suo maestro di scuola elementare a consentirle di proseguire gli studi. Era lui a insistere che lei continuasse ad andare a scuola. E i suoi genitori come reagivano?

«Mio padre spiegava che non c'erano soldi, ma il maestro non mollava, e un giorno mi presentò ai frati dei Servi di Maria per un colloquio. Il loro istituto ogni anno assicurava studi gratuiti a cinque ragazzi meritevoli. Quando venni ammesso, il maestro tornò trionfante da papà dicendo che avrei potuto studiare senza spendere una lira».

La reazione?

«Aveva già pianificato che avrei fatto il muratore, e io stesso non vedevo l'ora di aiutare papà. Alla fine, pur non felicissimo, cedette. Mamma invece era contenta».

Il collegio, dunque. Quanti furono duri quegli anni?

«Ho ricordi di durezza e severità, ma prevale la simpatia perché finalmente rompevo con la mia solitudine. Vivere da soli è un'esperienza che non si racconta, o la fai o non la fai. Se la fai, puoi provare a raccontarla, ma le certezze di essere capito fino in fondo sono poche».

La sua etica del lavoro nasce proprio da questi trascorsi.

«Ho visto troppi esempi straordinari del fare senza paura, di persone che si ferivano e andavano avanti comunque, per non esserne ispirato. Papà con gli amici costruì casa in due settimane lavorando giorno e notte. Lì c'è la mia forza e la determinazione che non so quanto sia, ma quella che ho l'ho imparata lì. Quando uno porta con sé questo libro di ricordi scolpiti avverte che non c'è niente di impossibile».

Scolpiti nelle terre dell'Emilia Romagna che assieme a Lombardia e Veneto è il motore dell'economia italiana. Questi esempi e modelli sono stati il carburante per tanti della sua generazione.

«Le ragioni culturali, storiche e geografiche contano. I territori costieri hanno trascorsi legati alla pesca che non è una lotteria però di fatto butti la rete o l'amo e speri. Il rapporto con la terra, in questo caso la pianura padana, è un esercizio di concretezza che ha sposato le pulsioni ideali di un'area dove, poi, si sono miscelati grandi movimenti di pensiero. Qui sono nati il socialismo di Prampolini, Mussolini, le Brigate rosse, è una terra di fermenti e di ribellioni al potere».

Oltre che dei motori.

«Perché la velocità è un po' la traduzione del sogno del volo».

Chiedo a lei che ha trovato il riscatto nella scuola. Cosa insegna la scuola, cosa il mondo del lavoro e cosa comporta la distanza che ancora separa questi due mondi?

«La scuola è una palestra virtuosa dove apprendi contenuti importanti e all'interno di essa vi sono valori preziosi. L'azienda è l'organizzazione del fare, la somma di cento azioni da coordinare tutti i giorni. I due mondi andrebbero collegati di più».

I tentativi non mancano, però trovano scarso riscontro nei fatti.

«Non basta il mese estivo. Io interromperei il corsi di studi per un anno così da far capire al ragazzo i meccanismi dell'impresa, un lungo periodo stimolerebbe anche le aziende a coinvolgere di più i giovani».

Potrebbe uscirne rafforzato anche il senso del dovere così scarsamente coltivato a scuola, oltre che in famiglia.

«Il senso del diritto è fortunatamente alto, ma il senso del dovere è andato attenuandosi. Un tempo l'autorità era riconosciuta a prescindere, se tornavi da scuola con un 5 prendevi un forte rimprovero. Adesso i genitori mettono spesso in discussione il docente. Così i ragazzi crescono sicuri di non essere bocciati salvo che accada qualcosa di veramente disastroso. Non c'è la cultura della responsabilità e del merito, due valori necessari se vuoi sperare in una società migliore. Il diritto ha la totale prevalenza su tutto, ma non credo sia la strada giusta da seguire».

Cosa accade in azienda quando viene a mancare il senso del dovere?

«Finché lavoravano i vecchi emiliani, nelle nostre aziende l'assenteismo era pari a zero. Ora siamo al 10%, percentuale che si dimezza in Germania ed è quasi pari a zero nell'Europa dell'Est. In Cina non c'è assenteismo. Aggiungo questo. Nonostante i recenti tre mesi di fermo, la Cina ha ormai recuperato le settimane perse, si lavora 13 giorni su 14 e credo non ci saranno le perdite previste da molti istituti di previsioni economiche. Le aziende cinesi del gruppo stanno toccando il record di fatturato. I problemi sono qui da noi dove a pochi giorni dalla ripresa dopo il lockdown si era già fermi per un ponte».

Cosa è per lei il lavoro?

«È ciò che genera ricchezza, fa vivere meglio e crea opportunità per tutti. Quando il lavoro gira, una persona si educa, impara, si realizza. In una parola, vive. C'è un problema: si scrivono lunghe carte sui diritti del lavoro, ed è un fatto di civiltà, però non si sente parlare mai di carte dei doveri».

Come sceglie i suoi più stretti collaboratori? Quali le qualità professionali e umane che ritiene imprescindibili?

«Scelgo chi sa sorridere e ha poche certezze, un tratto che è segno d'intelligenza, perché non sopporto i saccenti e gli arroganti. In sostanza, mi piacciono uomini che assomigliano ai bimbi incerti e che sanno sorridere».

Ha detto che ama crescere, e si cresce solo se si cambia. Poi c'è una spina dorsale alla quale si ancorano i cambiamenti. Da cosa è costituita la sua spina dorsale?

«Dal sentire che il tempo di vita è ignoto e comunque breve. Che più sai e più sei libero, più cresci e più sei bello pur nella certezza che non potrai mai conoscere e sperimentare tutto, che non finirai il volo perché l'asteroide finirà comunque per disintegrarsi. Ma la spinta e la pulsione è simile a quella misteriosa del salmone: continua a nuotare a fatica d'istinto e per bisogno».

Lei quanto è ambizioso?

«Se ambizione vuol dire aspirare a diventare migliori e crescere, allora io sono molto ambizioso. Il mio interrogativo ricorrente è: Sto crescendo o mi sono fermato?. Ho bisogno di sentire che non sono mai fermo».

L'Italia è mediamente ostile all'imprenditoria. Non ha mai pensato di andarsene?

«Continuo a pensare che il nostro Paese abbia le risorse per rimanere uno dei principali nella manifattura a livello globale e per continuare a migliorare. Qualche volta per risalire la china arrivano in soccorso le difficoltà perché è lì che trovi il coraggio di fare modifiche al sistema. Lo chiamo il coraggio del bene, ahimè perso spesso da tanti politici che sembrano legati al consenso nel breve termine più che agli interessi generali nel lungo periodo».

Cosa prova quando passa per Basilea, là dove lavoravano i genitori?

«Premo il piede sull'acceleratore. È un ricordo che voglio rimuovere, lì c'è il sacrificio dei miei genitori, c'è la baracca foderata con sacchi di cemento per evitare gli spifferi d'aria. C'è la sofferenza di persone che si sottoponevano a sacrifici sovrumani, e non alludo tanto a quelli fisici, ma psicologici: lasciavano gli affetti per nove mesi all'anno, ogni anno. È un periodo che vorrei seppellire».

Un fatto che più di tutti ha inciso sulle sue scelte di uomo?

«La sera che dormii nella baracca di papà. Mi dissi: Questa non è vita, non si deve vivere così. Diventerò grande anch'io. Mi batterò affinché le baracche foderate di cemento non esistano più. Ora spero che spariscano le tendopoli dei migranti pagati tre euro all'ora e che vivono in condizioni miserabili. Queste cose fanno disonore, ma ancor prima sono un atto di ingiustizia che porta male. Il mondo sarà tanto più sereno quanto minori saranno le ingiustizie».

Immaginiamo l'orgoglio dei genitori per i suoi successi, un bel risarcimento.

«Per fortuna hanno assistito al fiorire della mia azienda. Penso di avere arrecato gran gioia. Oggi non ci sono più, ma se avessero potuto vedere questa storia fortunata penso ne sarebbero felicissimi».

Il suo ufficio è pieno di opere d'arte. Che rapporto ha con l'arte.

«Ho un rapporto istintivo, arcaico. Se un'opera mi emoziona per me è arte, se questo non accade non ho voglia di studiarla per emozionarmi, preferisco vivere altre emozioni di cui la vita è piena. Di fronte alla Pietà non devi spiegare niente.

E quel pianoforte?

«Quel pianoforte è il mio cruccio! Non conoscere la musica, non poter comporre tre note. Mi lasci credere che ho ancora tempo. Ma mai dire mai».

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