«Il miglior amico dell’uomo? È il cavallo. Anche in guerra»

«Il miglior amico dell’uomo? È il cavallo. Anche in guerra»

Los AngelesSteven Spielberg non è tipo da starsene con le mani in mano. Quando si è trovato di fronte a una pausa di dodici mesi durante la produzione di Le avventure di Tintin, per dare tempo ai maghi degli effetti speciali di trasformare le immagini girate in motion capture prima del montaggio finale, l’iperattivo regista e produttore ha deciso di girare un altro film. E si è gettato sulla trasposizione cinematografica del successo teatrale War Horse, che negli Stati Uniti uscirà a Natale (da noi il 20 febbraio), quattro giorni dopo il suo Tintin, in Europa già visto in ottobre. War Horse, interpretato dall’esordiente inglese Jeremy Irvine e da un cast britannico ed europeo, è la storia di Joey, il cavallo del protagonista Albert, un giovane contadino, che allo scoppio della prima guerra mondiale viene venduto all’esercito inglese per poi passare in mano tedesca e francese prima di ritrovarsi quasi miracolosamente alla fine del conflitto col suo padrone, anch’egli al fronte nell’esercito di Sua Maestà.
Spielberg, prima di parlare del film una curiosità: lei si riposa mai, o ha interessi e passioni al di fuori dell'ambito cinematografico?
«Direi di no, almeno negli ultimi due anni e mezzo. E il poco tempo libero che ho lo dedico ai miei figli, questa è sempre stata la mia priorità. Anche se devo confessare una certa passione per alcuni giochini elettronici su iPad, coi quali ogni tanto mi offro quindici minuti di relax».
Dopo la seconda guerra mondiale, con Salvate il soldato Ryan e The Pacific in veste di produttore, ora si cimenta con la grande guerra. Come mai?
«Premetto che secondo me War Horse non è un film di guerra ma è la storia del rapporto tra un animale e gli essere umani che entrano in contatto con lui, una storia di speranza anche in circostanze estreme. È per questo che ho girato il film in modo che non sia “Rated R”, cioè vietato ai minori di 17 anni se non accompagnati da adulti, come ad esempio Salvate il soldato Ryan, perché lo considero un film per famiglie. La guerra è solo lo sfondo della storia, e offre lo spunto drammatico per collegare i personaggi di questa avventura».
Cosa l’ha spinta a realizzare questo film epico con 5800 comparse e trecento cavalli?
«Lo spettacolo teatrale, che mi era stato segnalato dalla mia produttrice Kathleen Kennedy, mi ha fatto piangere. È una storia catartica, la storia della gioia che Joey sa creare attorno a sé. Mostra come un animale sappia tessere forti rapporti con un essere umano, a volte più forti di quello tra gli umani stessi. È anche una storia di sopravvivenza, quella dei soldati, dei contadini rimasti a casa, e del nostro eroe equino. E mi piaceva la natura episodica della storia, con ambientazioni e personaggi diversi. Chiaramente a teatro i cavalli erano burattini a grandezza naturale animati da tre burattinai, due per le gambe e uno per la testa e il collo. Noi abbiamo dovuto lavorare con animali in carne ed ossa».
Lei è appassionato di cavalli?
«Sì, negli anni '80 cavalcavo regolarmente, ma poi mi sono fatto male alla schiena e ho dovuto smettere. Ma mia moglie e mia figlia di quindici anni sono dedite all’equitazione, mia figlia è una campionessa di salto e compete a livello nazionale, e abbiamo dodici cavalli nella nostra tenuta di Brentwood. Quindi penso di essere un buon candidato per dirigere questo film. E il cavallo è nella storia americana. Forse non tutti sanno che gli Stati Uniti hanno inviato agli alleati europei 639mila cavalli durante la Prima guerra mondiale».
Come è lavorare con così tanti cavalli?
«Per interpretare Joey abbiamo utilizzato quattordici animali diversi, ma tra questi la star è Finder, un cavallo di undici anni che è un veterano di Seabiscuit, Le avventure di Zorro e Cowboy & Aliens. Prima di iniziare le riprese ho disegnato lo storyboard, ho pre-visualizzato tutto il film, e ho chiesto a Bobby Lovgren, il nostro trainer, cosa poteva realisticamente essere fatto e cosa no. Il mio scopo era di girare coi cavalli il più possibile e di usare al minimo gli effetti speciali. Lui e il suoi team ci hanno detto che potevano fare l’85% delle sequenze, anche se alcune non le avevano mai realizzate prima. E tutto questo senza alcuna violenza sui cavalli».
Ci parli invece del protagonista umano, Jeremy Irvine.
«È stato una vera scoperta. Era alle prime armi e aveva appena firmato con un agente, e la nostra era la sua seconda audizione, che è stata fatta via video a Londra. Mi è piaciuta, gliene ho fatte fare altre, e dopo un paio di mesi gli ho chiesto di incontrarmi per un caffé a Londra.

E così, come dice Jeremy stesso, è passato direttamente dal fare la parte di un albero nel coro di una produzione teatrale della Royal Shakespeare Company, senza dialogo, a quella di protagonista nel mio film. È stato bravissimo. E pensare che non sapeva nemmeno cavalcare e ha dovuto imparare per il ruolo».

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