Chi l’ha detto che il cinema italiano è provinciale? Ogni tanto arriva anche qualche riconoscimento internazionale: come era stato per le nomination all’Oscar del milanese «Io sono l’amore» di Luca Guadagnino o, caso dei giorni scorsi, per l’Orso d’oro vinto al Festival di Berlino da «Cesare deve morire», pellicola diretta dai Fratelli Taviani sull’opera teatrale di Fabio Cavalli, co-produttore e interprete del film. Peccato che si tratti sempre di opere al di fuori dei grandi circuiti, quasi sempre poco distribuite e realizzate faticosamente con scarsi budget. Questa sera sarà proprio Cavalli, regista di frontiera da oltre 10 anni all’opera con una compagnia stabile all’interno del carcere di Rebibbia, a raccontare al pubblico milanese della Fondazione Cineteca Italiana (ore 21, Area Metropolis 2.0 a Paderno Dugnano) un’opera che lui stesso definisce rivoluzionaria. «Rivoluzionaria perchè tutti gli attori che recitano il mio Giulio Cesare shakespeariano sono detenuti di un carcere di massima sicurezza. Ma anche perchè questi stessi detenuti sono interpreti straordinari che hanno alle spalle 10 anni di palcoscenico all’interno dell’unica “accademia prigioniera“ d’Italia».
Una compagnia stabile di cui lei è il direttore. Come ne è venuto fuori un film?
«Lo spettacolo teatrale, fruibile soltanto nella sala di spettacolo di Rebibbia, ha avuto un grande successo con oltre 20mila spettatori, tra cui molti registi cinematografici. Il dramma di Shakepeare è rivisitato e tagliato su personaggi autentici che, nel loro vissuto personale, hanno molto a che fare con i ruoli e le vicende di un’opera densa di elementi forti come il dolore, la vendetta, l’amicizia, il tradimento, la morte. Chi interpreta il personaggio di Antonio è in carcere perchè ha vendicato l’uccisione di suo padre. Speravo da anni di farne un film, ma...»
Ma?
«La ricerca dei (pochi) finanziamenti ha sempre cozzato contro un muro. Gli stessi fratelli Taviani hanno avuto enormi difficoltà a trovare fondi che, di fatto, non arrivano a 500mila euro. Alla fine è stata una colletta tra la Rai, Regione Lazio, l’assessorato alla Cultura del Comune di Roma e il ministero. Anche il Centro Studi e Archivio Storico Enrico Maria Salerno ha tirato fuori 50mila euro».
Beh, ne è valsa la pena, l’Europa vi ha premiato.
«Una grande soddisfazione, a cui speriamo segua quella di rientrare dai costi. Il film viene distribuito in sole 40 sale in tutt’Italia. Gli attori hanno ricevuto un obolo da un fondo di solidarietà...»
C’è chi sostiene che i detenuti dovrebbero solo fare i detenuti
«Chi dice queste cose ignora l’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di espressione. Nella mia esperienza all’interno del carcere ho verificato che un inferno può essere trasformato in purgatorio e il teatro, più di tutto, ha un potere taumaturgico sui reclusi perchè è un’arte che amplia gli orizzonti di senso; oltre a educare persone che, nella maggioranza dei casi, non hanno mai conseguito un diploma e difficilmente tornerebbero sui banchi di scuola».
Nei 76 minuti del film girato in vari luoghi del carcere, lei fa recitare Cesare, Cassio, Bruto nei dialetti d’origine degli attori: ligure, pugliese, campano. Perchè?
«Non vorrei sembrare leghista, ma i dialetti rappresentano un o patrimonio inestimabile della nostra cultura nazionale. Inoltre i miei attori, che sono perfettamente in grado di recitare in italiano, nel loro dialetto riescono ad traslare con una forza ancora maggiore i linguaggi alti che animano un grande dramma come il Giulio Cesare. Una catarsi che ho potuto sperimentare anche con altri classici come la Tempesta, l’Amleto, o l’Inferno di Dante».
Viene in mente il «Vangelo secondo Matteo» di Pasolini. Secondo lei che cosa ha colpito la giuria di Berlino?
«Soprattutto il fatto che si tratta davvero di un’opera irripetibile.
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