La Centrale a due volti tra inferno e passerella

Un girone dantesco popolato di immigrati, ladri e diseredati dove passano distratti gli uomini d'affari e la gente qualunque

Non c'è pace all'inferno. Ma c'è posto per tutti. E il frate se ne rese conto, consumando sull'asfalto le povere suole. Quello che restava di un uomo, a metà strada fra questo mondo e quell'altro, era lì. Sotto i suoi occhi. Mille declinazioni della miseria. Eroina e tacchi a spillo. Siringhe reduci dalla vena, sbriciolate da piedi lussuosi durante la scimmia assassina. Giovani già vecchi, divorati dall'alcol, assaggiavano l'ultima sbornia con la benzina. E allora non era roba da ricchi. Avanzi di galera, ciondoloni, spiavano i nuovi venuti. I loro portafogli voluminosi. Le valige gonfie. Mentre un barbone russava tra i cartoni. Dopo aver perlustrato i rifiuti, frugando a mani nude tra gli sputi e le cicche. E c'erano i rifiutati. Lasciati morire in strada, con le gambe in cancrena.

Ettore Boschetti, un mantovano catapultato alla Centrale da Venezia, era un camilliano. La sera in cui arrivò alla casa di cura dell'ordine, a pochi passi dalla stazione, decise di fare un giro all'inferno. E capì che era una porta. Ma, da lì, non si arrivava, come gli avevano sempre detto. Da lì si partiva. E quei senza Dio che avevano stropicciato e gettato le loro esistenze erano là per questo. L'ultimo viaggio. Quello che non si fa in treno.

Ettore Boschetti divenne Fratel Ettore e per soccorrere quelle vite al capolinea aveva una sola via. Rivolgersi alla Provvidenza. E fu ascoltato. Un giorno il capostazione Venturelli gli si avvicinò titubante. Si vergognava. Era il posto più squallido e tetro che si potesse immaginare. «Ma è l'unico che abbiamo. È offensivo per ospitare persone, ma non posso offrirle altro». Quando lo vide, Fratel Ettore saltò di gioia. E Venturelli non credette ai suoi occhi. Erano due grandi magazzini, buie arcate sotto il peso dei binari. In via Sammartini. E divennero il Rifugio del cuore immacolato di Maria.

Brande e tepore per chi non aveva mai conosciuto né le une né l'altro. Ma solo vari tipi di morte maleducata. Era il '76. Undici anni dopo, in una Milano da bere che nelle viscere della Centrale buttava giù ogni giorno il suo amaro calice, al Rifugio si presentò uno sconosciuto. Uno dei tanti. Ma non un viandante. Nell'87 Gabriele Albertini era un imprenditore. Sindaco lo sarebbe diventato un decennio più tardi. Ma quella sera, timidamente, andò a Messa proprio in via Sammartini. Mescolato fra atei e credenti di tutte le razze. Poveri. E disperati.

L'altare era un tavolaccio. Di quelli dove i miseri mangiavano le briciole che cadevano dalla mensa dei ricchi. E le panche non c'erano. Tutti seduti sui cartoni ad ascoltare l'omelia di quel frate su un pulpito improvvisato. In piedi su una sedia logora e sgangherata. Fratel Ettore esortò i suoi poveri a una preghiera collettiva. Tra loro, quel giorno, c'era un tale - disse - poco noto ai più, ma con responsabilità importanti per Milano. Anonimo. Mescolato fra gli ultimi. E quei disgraziati recitarono il Pater noster per Albertini. Polifonia distonica. E distorta. Lacrime sulle gote di quell'uomo che, per la prima volta in vita sua, aveva conosciuto di persona il misticismo.

«Le stazioni sono un po' come le chiese. Passato l'orario delle funzioni solenni - sera o mattina - sono umide e tetre, con l'aria dolce e guasta dei sepolcri». E un cimitero dove si seppellivano speranze lo era già allora. La Centrale, fine anni Cinquanta. Era apparsa così agli occhi di Anna Maria Ortese che in quei lugubri budelli si era avventurata per un'inchiesta. Il mestiere di scrittrice non pagava. E lei non era un firma. Non ancora, perlomeno. Campava in una casa di fronte a San Celso, in coabitazione con un gruppo di scrittori e giornalisti. «Eravamo veramente artisti? O semplicemente comunisti? O poveri sbandati? Chissà...» si chiese. Scrisse quelle righe per un giornale del pomeriggio, poi le riunì in un libro. Silenzio a Milano . La città che lei vide e conobbe.

La stazione. Frenetica di giorno, sonnambula di notte. «Porta del lavoro, ponte della necessità, estuario del sangue semplice. Innesto tra una manodopera eterna e un capitale altrettanto eterno e impassibile». Crocevia di immigrazione, come oggi. Sudisti con le valige di cartone. L'Africa era ancora lontana. Non aveva vomitato i suoi figli sul ciglio di un binario. In una sala d'attesa dove sessant'anni fa si poteva fumare. Ma era proibito perché il guardasala non voleva. «Questo solo era il mare, il mare umano, il respiro profondo di Milano».

Eppure, la Centrale non è sempre stata lì. E non si chiama così perché è in centro. La volle Cecco Peppe, come il popolino soprannominò Francesco Giuseppe d'Austria. Era il 1857. Ma a inaugurarla - sette anni dopo - ci pensò Vittorio Emanuele II, a Unità d'Italia raggiunta. Si trovava nell'odierna piazza della Repubblica, allora banalmente denominata piazzale della Stazione Centrale. Battezzata così perché a mezza via fra quelle di Porta Nuova e Porta Tosa. Era uno scalo di transito. I treni provenivano da una fermata e si dirigevano alla successiva. Con il nuovo secolo fu il traffico ferroviario a pretendere di più. Il bando fu emesso nel 1906. Per Expo. Ma venne espletato solo nel '12. Vinse il progetto di Ulisse Stacchini, l'uomo che realizzò anche il Savini. Ma ci vollero tredici anni per iniziarla. E altri sei per finirla.

Richiama uno stile liberty che piacque anche al Duce, il quale si limitò a metterci la «ciliegina». Prese il fascio littorio - solo recentemente rimosso - e lo distribuì qua e là. Insieme ad altri simboli della romanità. La nuova Centrale aprì nel '31. Stazione di testa. Autoritaria e maestosa. Da lì i treni partivano. Punto. L'angoscia dava appuntamento al binario 21, quello delle tradotte verso i lager. Le prime lacrime di pianti mai finiti nacquero là. Poi vennero gli immigrati. I drogati. I poveri. I barboni. Gli ultimi saluti dei fidanzati. E degli amanti. Clandestini anche loro, talvolta. Perfino delitti. Dietro le quinte della moda. A inventarle fu il cinema. Ma il mondo patinato decise di snobbare quel set alla Centrale. Troppo fango, dissero. Il 1985 era il cuore della Milano da bere. E piangere era proibito. Moschino fu l'unico stilista a prestare proprie sfilate a Sotto il vestito niente . Una storia d'amore e di coltello. Non si curò dei sarti colleghi suoi e allestì una passerella sul laico sagrato di quella cattedrale di rifiuti. Verbali. E umani. Perché si può piangere anche così. Con lustrini e tacco dodici.

Molti i film girati alla Centrale. Tra i tanti, «Sotto il vestito niente» dei fratelli Vanzina che risale al 1985 ed è un thriller ambientato nel mondo patinato della moda.

Pur narrando fatti di fantasia e ricalcando «Omicidio a luci rosse» di Brain De Palma, la pellicola richiamava un fatto di cronaca recente per l'epoca, il delitto del playboy Francesco D'Alessio da parte della modella Terry Broome. Il film venne snobbato dagli stilisti, convinti che gettasse discredito sul settore.

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