«Giuro, sarò io il primo ad attaccarli... In questa Italia crociata... Giuro che l'attacco nel Vaticano»: così in una telefonata intercettata dalla Digos Abderrahim Moutaharrik, marocchino 28enne residente a Lecco, assicurava la propria fedeltà alla causa della jihad. Ieri il «pugile dell'Isis», soprannominato così perché è un campione di thai boxe, è stato condannato a sei anni di carcere. Secondo gli inquirenti, era pronto a compiere un attentato suicida nel nome dello Stato islamico nel nostro Paese. In un luogo simbolo di Roma, in Vaticano oppure all'ambasciata di Israele.
Il gup Alessandra Simion ha condannato con il rito abbreviato, a cinque anni, anche la moglie connazionale di Moutaharrik, Salma Benkarchi. Alla coppia è stata sospesa la potestà genitoriale. Avrebbero voluto infatti portare con sé in Siria i figli di due e quattro anni. Inflitti inoltre sei anni ad Abderrahmane Kachia, fratello di un foreign fighter morto nei territori del Califfato, e tre anni e quattro mesi a Wafa Koraichi, sorella di un aspirante martire di Allah. Quest'ultima, residente a Baveno sul lago Maggiore, nei giorni scorsi ha ottenuto i domiciliari. Tutti gli imputati, arrestati nell'aprile dello scorso anno, rispondevano di terrorismo internazionale per presunti legami con l'Isis. I pm dell'anti terrorismo Francesco Cajani ed Enrico Pavone avevano chiesto pene dai sei anni e mezzo ai tre anni e mezzo.
«Moutaharrik è amareggiato e incredulo per la condanna e continua a dichiararsi innocente - ha spiegato il difensore del marocchino, Sandro Clementi -. È una sentenza annunciata, cui ci appelleremo sicuramente. È un processo che non ha avuto nessuna fondatezza probatoria e che si è svolto senza garanzie per l'imputato». Il riferimento è all'istanza di ricusazione del gup presentata dal legale e poi respinta. Simion aveva definito l'imputato «presumibilmente un appartenente all'Isis» nel provvedimento con cui gli negava la possibilità di presenziare al processo, cui Moutaharrik (come i coimputati) ha partecipato in videoconferenza. «Un'anticipazione della sentenza» per Clementi.
Secondo l'accusa, l'ex pugile era a capo della cellula terroristica radicata in Lombardia. Proprio dal fratello di Wafa, Mohamed Koraichi, riceveva direttamente dalla Siria incitamenti alla jihad e indicazioni su come colpire in Italia: «Se fai un attentato, è una cosa grande». Koraichi è latitante dal gennaio del 2015, quando partì da Bulciago nel Lecchese per arruolarsi nell'Isis insieme alle moglie Alice Brignoli, convertita all'islam, e ai tre figli piccoli. Dall'amico Moutaharrik, che aveva avuto la «tazkia», il nulla osta per andare nel Califfato, avrebbe ricevuto via WhatsApp un «poema bomba». Recitavano i versi: «Ascolta lo Sceicco, colpisci! (...) fai esplodere la tua cintura nelle folle dicendo Allah Akbar». E il 28enne rispondeva nelle telefonate agli atti: «Sarò il primo ad attaccare l'Italia».
Sotto il suo letto gli investigatori della Digos avevano anche trovato nascosto un «pugnale da combattimento», di quelli utilizzati nei video di propaganda dei segiaci di Al Baghdadi per sgozzare gli «infedeli» occidentali.
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