Com'è bella la città, com'è grande la città, com'è viva la città, com'è allegra la città, cantava il signor G. Che la sua città, sottintendi Milano, l'amava davvero e non solo nei grattacieli sempre più alti e nelle vetrine piene di luce, ma soprattutto nell'energia pulsante della sua gente. Di cui Giorgio Gaber amava circondarsi condividendola con la compagna di una vita Ombretta Colli. Proprio lei, nel decennale della scomparsa e nel giorno (oggi) in cui il re del teatro-canzone avrebbe compiuto 74 anni, lo ricorderà in un omaggio che la Fondazione Giorgio Gaber e la Regione Lombardia hanno organizzato a Palazzo Pirelli, tra rarità e filmati inediti.
Per Ombretta e Giorgio è sempre stata bella la città?
«Beh, in 42 anni di matrimonio abbiamo vissuto Milano in tutte le sue anime. Da quella scoppiettante e piena di vita degli anni Sessanta a quella un po' più cupa della contestazione, dalla Milano da bere a quella, dai Novanta in poi, di una città seduta su sè stessa. Un po' troppo».
La prima anima, non a caso, corrisponde al vostro incontro. Com'era andata?
«Era l'autunno del '62 e lui stava preparando la copertina del nuovo album per Sanremo. La modella prenotata per il set era indisposta e il fotografo, che era amico di mio padre, chiamò me».
Colpo di fulmine?
«Per nulla, dopo il servizio lui mi invitò a colazione ma poi ci perdemmo di vista per un anno. Ci rincontrammo per puro caso in una discoteca di Roma in compagnia di amici comuni. Restammo uniti per quasi mezzo secolo».
Già, vi sposaste all'abbazia di Chiaravalle. La sera prima lui era chissà dove, e lei a lavorare al Derby...
«Avevo perso la cognizione del tempo. A un certo punto sto andando al banco del bar e sento Jannacci, Cochi e Renato intonare una marcia nuziale. Mi si gela il sangue e penso: oddio, mi sposo domani! E provate a immaginare il casino che han combinato alla festa di matrimonio...».
A Milano avevate tanti amici?
«Erano tutti quelli che ruotavano nel nostro mondo, che poi era quello del Derby, un tempio dello spettacolo che ci invidiavano tutti, anche i romani. E il Derby significava Milano, che in Italia era la città per eccellenza, capitale del pensiero positivo».
Quali erano i luoghi che lei e Gaber amavate frequentare?
«Tutti, perchè entrambi sapevamo cogliere - anche per deformazione professionale - quella che era la vera anima della città, cioè la capacità di rinnovarsi continuamente, di trasmettere idee e, perchè no, anche mode. Dalle osterie dei Navigli agli atelier di Brera alle bottegucce del centro storico. Eravamo molto curiosi e tutto poteva diventare materiale per gli spettacoli, per le canzoni».
Vi divertivate insomma.
«Molto, ma era contagioso anche il clima di fine anni Sessanta, perchè Milano si riempiva di teatri, cinema e ristoranti, ai concerti arrivavano le star americane e nascevano le prime paninerie, più ruspanti ma più genuine di quelle di oggi. Io e Giorgio eravamo pazzi per gli hot dog, se ci penso mi viene ancora l'acquolina in bocca...»
A cinema ci andavate?
«Spessissimo, anche se il giorno deputato era il lunedì. Venivamo nelle sale del Corso Vittorio Emanuele e a volte eravamo capaci di vedere anche due o tre pellicole in un giorno. Avevamo gusti molto simili, anche se io avevo una vera passione per Visconti, mentre lui adorava Antonioni che a me ha sempre annoiato».
Poi arrivarono i rampanti anni Ottanta e la Milano da bere. Che a suo marito piaceva un po' meno...
«Ma guardi che Giorgio non era affatto politicizzato come han detto in tanti, era uno spirito libero che guardava quello che gli stava intorno e commentava.
A proposito di sindaci, Pisapia ha intitolato a suo marito il teatro Lirico, è contenta?
«Ha detto che intitolerà. Ma mi accontenterei che facesse risorgere finalmente quel teatro».
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