Furono i "compagni" e non CasaPound a colpire il loro militante

Decisiva una testimone che era allo stadio L'ultrasinistra mise a ferro e fuoco la città

Furono i "compagni" e non CasaPound a colpire il loro militante

Chissà se è stato un colpo sfuggito di mano o un clamoroso errore di persona o cos'altro: ma la bastonata che il 18 gennaio 2015 a Cremona spedì in coma il militante antagonista Emilio Visigalli va catalogata indubbiamente come «fuoco amico». A colpire violentemente Visigalli (netturbino in provincia di Lodi, da sempre militante dell'ultrasinistra) sul lato destro del cranio, rischiando di ammazzarlo, non fu un neofascista di Casa Pound ma uno dei suoi stessi compagni, uno del gruppone del centro sociale «Dordoni» accorso per dare una lezione ai rivali. Due sabati dopo, per «vendicare» Visigalli, la tranquilla Cremona fu messa a ferro e fuoco dagli autonomi calati da tutta la Lombardia. Peccato che a colpire l'uomo fosse stato uno dei loro.

In tribunale a Cremona è in corso il processo a esponenti di entrambi i fronti: sul banco degli imputati siedono sia i «rossi» del «Dordoni» che i «neri» di Casa Pound. Ed è nell'ultima udienza del processo che è stata interrogata una testimone oculare del pestaggio di Visigalli. Era già stata sentita tre volte, durante le indagini preliminari e aveva sempre raccontato la stessa versione. Ma ora il suo racconto fa irruzione nell'aula del processo rischiando di ribaltarne l'esito.

Tutto accade all'esterno del bar Matisse, vicino allo stadio di calcio. Un gruppo di neofascisti, andando a vedere il derby Cremona-Mantova, passa di lì: e appiccica uno po' di adesivi di Casa Pound sulla porta (chiusa) del «Dordoni», il centro sociale che sta lì accanto, covo da anni dell'ultrasinistra. Mentre si gioca la partita, tra i militanti del centro sociale parte il tam tam, la chiamata a raccolta per rispondere alla provocazione aspettando i «fasci» al termine della partita. Così avviene. E a uscirne peggio di tutti è il non più giovane (cinquantun anni) Visigalli. Che però, appena si riprende dal coma, prima ancora di venire dimesso dall'ospedale, si dà ad organizzare la rappresaglia: per questo finisce anche lui arrestato e sotto processo.

Martedì, in aula, arriva una donna che era allo stadio per i fatti suoi, una signora né di destra né di sinistra, che quando scoppia il parapiglia si ritrova accanto ai contendenti. Il suo ricordo è netto: «Ho visto quell'uomo, era a circa sette metri da me. A colpirlo con un bastone è stato uno con il casco integrale che era dietro di lui, spostato un po' sulla destra, e infatti lo ha preso sul lato destro. Lui ha barcollato un po', poi è crollato».

Il dettaglio del casco è decisivo, perché a indossare i caschi erano solo quelli del centro sociale. La testimone non sa dire se il colpo partì apposta o per sbaglio, ma sull'autore non ha dubbi. Dice che poi, una volta a terra, Visigalli fu colpito a calci e pugni: e lì, probabilmente, a picchiarlo furono i neofascisti.

Sarà il medico legale, quando verrà interrogato in aula in una delle prossime udienze, a spiegare se a mandare in coma Visigalli furono la legnata in testa, o i calci e i pugni ricevuti dopo. Ma un dato è certo, perché portato in aula dal dirigente della Digos dell'epoca: «gli esponenti del Dordoni erano i soli ad essere travisati e armati di spranghe e bastoni».

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