Andrea Radic
Ivan Zazzaroni, giornalista sportivo, direttore editoriale digitale del Gruppo Amodei, esperto commentatore di calcio, anche a Radio Dj, sarà il sabato sera nella trasmissione dedicata al posticipo e ancora giudice di Ballando con le Stelle. A tavola con lui al Ratanà, dove lo chef Cesare Battisti interpreta con innovativa tradizione il nuovo protagonismo del food a Milano.
«I grandi uomini del calcio? Roberto Baggio, il numero uno in assoluto. Grande carisma, mi ha lasciato molto e poi Socrates, il brasiliano, grande disponibilità. Zico sicuramente, Batistuta, Zanetti. Oggi è diverso, i giocatori sono tenuti più a distanza».
Milano è diventata la nuova capitale del cibo?
«Abito a Monza e lavoro tra Roma Napoli e Milano. Milano è capitale di tutto in Italia non solo del food. Qui hai Oldani, Berton, Bertolini, Morelli, lo stesso Cracco, il sorprendente Battisti. C'è grande attenzione, da qui passa il mondo e dobbiamo anticipare i tempi. Una volta era così l'America, oggi siamo noi».
Che rapporto con il cibo?
«Non mi definisco gourmet, ma sono interessato a cose particolari. Il pesce di lago, penso al Garda e impazzisco per la pizza gourmet come quella di Sirani a Bagnolo Mella (Bs), l'ha inventata lui. Oppure La Stella a Desenzano e a Monza Era Pizza aperta da uno studioso di farine che riesce a renderla leggerissima, ma di gran gusto. La tavola andrebbe salvaguardata, è importante stare insieme e parlarsi, cosa che ho fatto poco: ero sempre in giro, ma oggi mi rendo conto che è un momento fondamentale di verifica, di mini bilancio quotidiano, nel quale c'è il sorriso, la battuta l'arrabbiatura».
Il sapore dell'infanzia?
«I tortellini di nonna Gisella per noi era tradizione. Lei si dedicava a tre cose, il tortellino in brodo, il Pantone una torta bolognese della tradizione e poi il bollito. La domenica si andava dai nonni, entravi e sentivi l'odore del brodo, sgrassato, lo sento ancora nel naso. Diventavo matto anche per la crosta del Parmigiano buttata nel brodo, diventava gommosa ma spettacolare. Sono stato un bambino felice, se hai avuto un'infanzia serena, avrai buone radici quando cresci».
Il profumo che ama in cucina?
«Ricordo il profumo della farina, mio padre aveva dei locali a Bologna dove io e mio fratello stavamo spesso, ci abbiamo anche lavorato. Già da bambino guardavo ai numeri, infatti non stavo in cucina ma alla cassa».
Ai fornelli o a tavola?
«A tavola, in cucina no, c'è chi se ne occupa. Quando mio figlio Gianmaria era piccolo facevo quattro cose per lui, mi inventavo dei sughi con quello che avevo dando nomi diversi, ma dentro c'erano sempre peperoni, pomodori, capperi, a volte un'alicetta, secondo ma cucinavo malissimo. Sono convinto che lui mangiasse per solidarietà, per amore».
Cosa non smetterebbe mai di mangiare?
«La pizza devo ammetterlo e, lo dico a bassa voce, anche l'aragosta. Ma alla pizza non rinuncio almeno una alla settimana, a volte anche cinque».
Il pranzo o la cena che non dimenticherà mai?
«Una volta da Uliassi, nelle Marche, mangiai in maniera divina. E poi una quaglia a Strasburgo in un ristorante prestigiosissimo, avevo vent'anni ero lì per l'esame da interprete al Parlamento, disossata e ricostruita, pur non amandola mi è rimasta in testa da trentasette anni. Indimenticabile».
E il vino?
«Mio padre e mio nonno avevano un rapporto con il vino quasi fraterno, io ho meno capacità di filtrarlo, mi basta un bicchiere e comincio a dire cose che non potete immaginare, oppure mi addormento. Però mi piace molto, il vino è un patrimonio italiano, il nostro petrolio anche se reggo meglio la birra».
Bianco, rosso o bollicine?
«La mia compagna è bresciana, conosciamo bene la Franciacorta e diversi produttori come Monterossa, adoro il loro Cabochon».
Cucina tradizionale o innovativa?
«Cucina buona, non scelgo in particolare tra innovativa e tradizionale. Amo mangiare bene e quindi spazio a tutto, senza preferenza. Ecco non sono un mangiatore di carne, perché ho gusti salutari, pesce, verdura, ogni tanto un sushi. Prevalentemente il pesce. Per la tradizione scelgo la cucina pugliese, il pesce e il pomodoro».
La regione e la città sinonimo di buona cucina?
«Tre luoghi in centro sud: Santa Cesarea Terme mi ha colpito. Napoli per come la vivo io, un rapporto con i napoletani molto forte e delle cozze alla brace al Giardino Eden di Ischia, mangiate davanti al Castello aragonese, da lacrime agli occhi. Infine l'Umbria: Perugia, Assisi, Spoleto, era appena dopo il terremoto la gente era spaventata ma tutto era incantevole. E poi un Paese straniero».
Quale?
«Il Brasile, ci ho vissuto e lavorato come interprete a Riberao Preto a diciotto anni, un'esperienza formativa. Partii con 700 dollari di papà e tornai con 7mila. Un luogo dalle mille anime e dalla grande cucina: fejioada e pao de quejo, è la mia seconda patria, lì mi sento a casa».
Il suo luogo del cuore?
«Bologna, non posso tradirla. La mia famiglia è custode delle Torri da sessant'anni, cominciò a gestirle mio nonno, oggi Ennio e Roberto miei cugini. Un rapporto viscerale con la gente, i vecchi bolognesi che stanno sparendo e i mitici Colli Bolognesi, da ragazzo un punto di riferimento per andare con le ragazze, quando cresci sono uno sfogatoio, quando ero arrabbiato andavo sui colli e in dieci minuti passava tutto. I miei percorsi, i miei profumi».
La cena romantica è un'arma vincente?
«Non è un mezzo, ma un traguardo. Uno strumento di sintesi di un rapporto».
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