Marta Calcagno Baldini
Un artista che sperimenta ed è privo di pregiudizi è un ricercatore. Certo, l'assenza di regole anche verso se stessi e la continua curiosità per il nuovo possono diventare quasi una condanna. zCiò che non si accetta da un artista è la discontinuità, l'eccessiva libertà» diceva, pensando a se stesso, Remo Bianco, classe 1922, che frequenta i corsi serali di disegno dell'Accademia di Brera alla fine degli anni Trenta ed entra subito in contatto con personaggi come Montale, Soffici, Carrà e Sironi. Il Museo del Novecento dedica all'artista milanese la mostra Remo Bianco. Le impronte della memoria, a cura di Lorella Giudici con la collaborazione della Fondazione Remo Bianco, fino al 6 ottobre. Libertà e memoria, le due parole chiave per definire il lavoro di Bianco che ha costruito un'intera vita «da ricercatore solitario», come lui stesso ancora pensava di sé. «Sì, era molte cose diverse, quindi le persone non potevano collocarlo da nessuna parte -ha detto anche Marina Abramovic, che conobbe e strinse un legame con Remo Bianco nel 1977 a Ferrara, nel periodo in cui con Ulay girava realizzando perfomance in tutt'Europa e non solo-. Noi dovevamo avere una mostra al Palazzo dei Diamanti, quindi eravamo andati lì. Lui sperimentava veramente e questo è il motivo per cui era un personaggio importante, interessante». Non è un mistero quindi che Bianco sia in collezione permanente, dal 2004, nella cantina La Montina, che sarà presente all'inaugurazione: l'azienda agricolai della Franciacorta, infatti, è anche un'importante galleria d'arte, che nella settecentesca Villa Baiana, tra botti e bottiglie, espone più di 120 opere di Remo Bianco. Al Museo saranno esposte ben 80 opere per entrare nel vivo di queste apparenti contraddizioni e cambiamenti, illustrando i vari percorsi di vita e di lavoro. L'allestimento copre le sale del Museo fino agli archivi, per opere che vanno dalle «Impronte», calchi in gesso, cartone pressato o gomma ricavate dai segni lasciati, ad esempio, da un'automobile sull'asfalto, in cui l'intento dell'artista è quello di recuperare «le cose più umili che di solito vanno perdute».
Ai «Sacchettini Testimonianze», realizzati sempre negli anni '50 assemblando oggetti di poco valore come monete o conchiglie; e ancora ai collage degli anni '50, ai «Tableaux Dorés»: fino ai «Quadri Parlanti», esposti per la prima volta nel 1974, tele in alcuni casi non lavorate in cotone bianco o nero, in altre impressionate con fotografie, sul cui retro sono posizionati degli amplificatori che, all'avvicinarsi dello spettatore, si attivano emettendo suoni o frasi registrate dall'artista.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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