Giordano Bruno Guerri, storico, scrittore e giornalista, è presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera dove ha trasformato il luogo dove visse Gabriele D'Annunzio in uno dei musei più visitati. Ora è al lavoro per l'11 marzo, una grande festa di inaugurazione di nove nuove sculture nel parco del Vittoriale e della profumazione della Prioria, mentre il giorno prima ci sarà l'apertura della mostra di Vittori Sgarbi al Museo della Follia di Salò.
Che rapporto ha con il cibo?
«Non sono propriamente un buongustaio, per me il cibo è nutrimento. Fra le mie molte virtù non c'è quella di gustarlo, cerco di mangiare il più in fretta possibile. Ho esordito in modo duro, anche se poi mi accorgo che passo la vita a mangiare...».
Cosa?
«Mia madre aveva una trattoria molto semplice e mi sono affezionato alle sue ricette: pasta al ragù e cotolette. Andando poi a vivere da solo mi sono nutrito di scatolette fino al momento in cui una straordinaria donna pugliese che ho sposato mi ha riportato alla passione per la cucina. Il pesce soprattutto. In verità ciò che non sopporto è stare seduto a tavola, la solennità del pasto, il rito dell'apparecchiatura, preferisco mangiare facendo altro come leggere, guardare la tv. Anche quando scrivo spesso sto in piedi».
Refrattario alle consuetudini?
«Quando fui assessore al comune Calabrese di Soveria Mannelli cambiai la dicitura alla cultura con assessore al dissolvimento dell'ovvio. Dovette deliberarlo il prefetto e mi dimisi con la seguente motivazione: Eccesso di cene».
Ti invitano a cena e sei spacciato.
«Altro rito che rifiuto è quello di certi cibi che vanno mangiati quando lo dice il calendario. Perché mai? Questo va violato, profanato. Panettone a Natale e agnello a Pasqua, con relativa strage di animali. In questi giorni ci sono le chiacchiere o cenci come diciamo in Toscana in ogni luogo, ma io ne avevo voglia a ottobre. Sfatiamo i riti: una volta ho portato un ramo di palma dicendo buon ulivo. Andrebbe bene adesso a Milano con le palme in Duomo. Sono comunque in grado di riconoscere cose buone dalle cattive e sono curioso delle cucine di tutto il mondo. Se mi proponessero una cena della Tanzania mi ci fionderei».
Il sapore dell'infanzia?
«Un piatto che mia mamma inventò per me: il ragù con le vongole, per farmi mangiare carne e pesce. Vongole affogate nel ragù. Non ho più mangiato la trippa, eravamo poveri e mi veniva proposta anche a merenda, sul pane».
Il profumo che ama in cucina?
«Il profumo del caffè che è pazzesco, la gioia del mattino.
Un profumo che le fa venire fame?
«Cotolette alla milanese».
Ai fornelli o a tavola?
«Sono campione mondiale di uova al tegamino. Mi piacciono moltissimo e le so fare bene. Tutto sta nella cottura, nell'arte del disporle, nel punto di sale e nel pane che si intinge scegliendo la crosta o la mollica. È un'arte raffinata, sottovalutata, come tutte le arti nobili».
Cosa non smetterebbe mai di mangiare?
«Cotolette. Sottili, schiacciate, croccanti sulla costa, le migliori in assoluto quelle del Girarrosto in corso Venezia. Sono anche ghiotto di dolci morbidi. Niente crostate, ma Mont Blanc, millefoglie, crema catalana, creme caramel e la sacher per la quale si può uccidere. A Vienna non manco mai la Sacher Konditorei».
Il pranzo o la cena che non dimenticherà?
«Le cene a due dopo decenni di scapolato selvaggio: quella che sarebbe stata mia moglie apparecchiò una tavola particolare e cucinò con grande amore, sorridendomi dall'altra parte del tavolo con un buon vino: una prospettiva di felicità».
Il vino cosa stimola in lei?
«Qui sono un buongustaio, molto attento anche se ho preclusioni: non amo i bianchi e gli spumanti, mi piace molto il vino rosso, corposo e secco. Vivendo ora in Valpolicella mi sembra di essere una volpe nel pollaio. Ho scoperto le cantine qui intorno, vini buonissimi come quelli di Allegrini. Bevo solo di sera con grande piacere. Un altro vino che mi piace è il Montepulciano d'Abruzzo di Zaccagnini, il Dolcetto di Einaudi e poi Nebbiolo, Syrah e Aglianico del Vulture. La vita è troppo breve per bere vini mediocri diceva Goethe».
Menù tradizionale o innovativo?
«Mi incuriosisce la sperimentazione, la novità è sempre buona cosa. Quasi sempre ci azzeccano, l'altra sera con Gualtiero Marchesi ero al Marchesino in piazza Scala, molto buono e con accanto il maestro che spiegava i piatti, non mi è pesato stare a tavola».
Ci sono eccezioni dunque.
«Ho anche le mie abitudini. Ci sono quattro ristoranti di fonte al Vittoriale, li frequento tutti per gentilezza e i ristoratori sanno già cosa mangio in ognuno di essi: carne, pesce, tagliatelle e vitello tonnato, il mio preferito. Anche se trovo la frase il solito? di una confidenza oscena».
La regione e la città che per lei sono sinonimo di buona cucina?
«Vivevo a Milano e dissi: vado tre mesi a Roma. Ci sono rimasto vent'anni. Uno dei motivi furono i carciofi alla giudia e le puntarelle. Abitavo sopra il ristorante Bolognese e mangiavo grassa e magra, un piatto di carne che non è in menù per la brutta faccia, ma buonissimo. Qualche anno a New York, dove una delle infinite gioie è mangiare tutte le cucine del mondo, dall'Ucraina a intere schiene di cotolette di maiale, anche questo un piatto della mia infanzia. Ora non posso dire che sto diventando vegetariano, ma forse per suggestione da parte dei vegetariani e per lo strazio di come gli animali vengono tenuti mangio meno carne».
Il suo luogo del cuore?
«Ricordo con particolare tenerezza i pranzi sulla spiaggia del litorale romano da Fregene a Santa Marinella. Mangiare sulla spiaggia è un lusso estremo».
La cena romantica è un'arma vincente?
«La cena romantica è l'avvicinamento per interposto cibo, l'avvio di un rapporto.
Anche se ricordo la battuta di una signora che invitai a cena. Mangiava un'insalata che a ogni boccone le usciva dalla bocca e mi disse non la prendo mai se ceno con qualcuno che mi interessa. Un modo elegante per darmi il due di picche... Ma finì bene ugualmente».
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