Manzoni, Verri e i luoghi della peste

I tempi del contagio occasione per riscoprire pagine immortali di antiche tragedie

Manzoni, Verri e i luoghi della peste

La passeggiata della peste non significa alimentare la paura di moderni contagi - che da molti segnali paiono meno virulenti di quanto si sia detto - ma entrare in risonanza con antiche tragedie. La peste di Milano del 1630, che infuriò dal marzo all'estate, spopolò la città. Le vie erano percorse da carri funebri condotti dai monatti, i quali, chiamati dalle valli lombarde per l'ingrato compito, caricavano cadaveri da versare nelle fosse comuni e combattevano l'epidemia, vanamente, tracannando «vino di Cipro», seduti sui corpi devastati dai bubboni. Passeggiare per Milano tra i luoghi della peste vuol dire farsi guidare da Alessandro Manzoni che portò Renzo nella città in preda al morbo (capitolo XXXIV dei Promessi sposi) facendolo passare da Porta Nuova. Venne prima scambiato per un untore, poi arrivò in piazza San Marco, dove indugiò davanti a una macchina della tortura («...rizzata in quel luogo, e non in quello soltanto, ma in tutte le piazze e nelle strade più spaziose...»). Se riaprissimo le pagine del romanzo, Renzo ci porterebbe nelle strade tra via Montenapoleone, via Pietro Verri e l'arteria oggi intitolata a Manzoni, sulle quali affacciavano case dai portoni sbarrati, segnati a croce con il carbone: ospitavano appestati. Ricordiamo, noi milanesi d'oggi, turbati dal momentaneo rallentamento della vita sociale, che in quell'anno «...erano morti forse i due terzi de' cittadini, andati via o ammalati una buona parte del resto...». Gli infetti venivano ricoverati al Lazzaretto, poco fuori le mura di Porta Orientale, oggi Porta Venezia. In Milano si aggiravano pochi e spaventati individui: si difendevano dal morbo aspirando «spugne inzuppate d'aceti medicati» e confidando nel potere taumaturgico dell'argento vivo, chiuso in boccette da appendere al collo.

Le pagine che Manzoni dedica all'epidemia nascono dall'attento studio che lo scrittore fece delle cronache sulla peste vergate dal cardinale Federico Borromeo (per 35 anni arcivescovo della città: morì a 67 anni, nel 1631) e dallo storico Giuseppe Ripamonti. Il De pestilentia del cardinale è conservato in Biblioteca Ambrosiana, fondata dal Borromeo nel 1607, a pochi passi dal Duomo. Cattedrale dove gli inesistenti untori (terribile fake news, oggi si direbbe: ma ci credevano tutti, a partire dall'arcivescovo) vennero visti spargere venefici unguenti sulle panche di separazione tra fedeli maschi e femmine. Ripamonti e Borromeo, benché meno letti di Manzoni, sono utilissimi per riportarci nella Milano del 1630. Il consiglio da dare agli studenti è cercarne i libri - il De pestilentia si trova ancora in edizione Rusconi, 1998, con prefazione di Gianfranco Ravasi e cura di Armando Torno -, da leggere insieme con I promessi sposi e Storia della colonna infame di Manzoni. Spinti da pietà - i secoli non possono estinguerla - bisognerebbe passeggiare dalle parti di Porta Ticinese; prendendo il corso, prima delle Colonne di San Lorenzo, c'è una via intitolata a Gian Giacomo Mora, barbitonsore, messo a morte con il commissario di sanità Guglielmo Piazza in quanto untore. La casa dove esercitava il mestiere - barbe, capelli e salassi - venne distrutta: sulle macerie fu eretta, a perenne ricordo, la colonna infame, con lapide ora collocata nel Cortile Ducale del Castello Sforzesco. Mora venne torturato sulla ruota, morso da tenaglie roventi in processione da piazza Beccaria a piazza Vetra, poi finalmente sgozzato.

Prima che nel saggio Colonna infame, il caso degli innocenti Piazza e Mora venne riaperto nel 1778 da Pietro Verri (fratello maggiore di Giovanni Verri, padre naturale di Manzoni: rivalutare i presunti untori, verrebbe da dire, è stato quasi affare di famiglia). Bene ha fatto il preside del liceo scientifico Volta di Milano, Domenico Squillace, a scrivere una toccante lettera - ripresa dai giornali e sui social network - nella quale invita gli studenti a riaprire le pagine «pestilenziali» di Manzoni. Il cui focus è il Lazzaretto, dove Renzo cerca Lucia (capitoli XXXV e XXXVI). Oggi di quell'ospizio eretto nel Cinquecento, dove morirono e in parte guarirono migliaia di appestati, resta un muro di mattoni, in via San Gregorio, nella zona di Milano che porta nella toponomastica il ricordo di un anno buio. Si passeggia nelle vie Lazzaretto, Felice Casati (il monaco che dirigeva il ricovero degli appestati), Ludovico Settala (il medico che per primo si accorse che l'epidemia era peste).

Strade vivaci, multietniche, di una Milano che non ricorda più le cupe stagioni dell'epidemia secentesca. Strade che dopo gli allarmi del coronavirus, mentre si ritorna alla normalità, siamo autorizzati ad attraversare con un grato pensiero alla gran penna di Manzoni, capace di farci provare pietà, dopo tanto tempo.

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