Mariangela, la figlia del ghisa che sognava il palcoscenico

Mariangela, la figlia del ghisa che sognava il palcoscenico

Nella sua nota di cordoglio per la scomparsa di Mariangela Melato - avvenuta ieri mattina in una clinica di Roma - il sindaco Giuliano Pisapia ha voluto ricordare che «Milano le aveva conferito nel 1979 la Medaglia d'Oro di civica benemerenza per aver impersonato nella passione, nella tenacia e nel duro impegno artistico, ormai noto in tutto il mondo, lo spirito volitivo della sua città». Già nel 1967 però Luchino Visconti aveva espresso all'incirca lo stesso apprezzamento in maniera più coincisa ed efficace. Dopo averla sottoposta a un provino per la «Monaca di Monza», il regista celebre per la sua ineffabile raffinatezza, ma allergico ai giri di parole, le aveva comunicato di aver ottenuto la parte dicendole: «sembri una ranocchietta, ma in realtà hai due coglioni!».
Questo aneddoto fa parte di un lunghissima rassegna di ricordi spesso gustosi o addirittura esilaranti, ma a volte anche parecchio malinconici, che la Melato aveva composto attraverso numerose interviste sui suoi esordi nella Milano degli anni sessanta. Per questa ragazza nata e cresciuta a Brera, e per la precisione in via Montebello, tutto era iniziato con le elementari del Parco Trotter, in una scuola per «bambini dal carattere difficile: chiuso, nel mio caso». Lì le avevano insegnato «tante cose belle e utili: a disegnare, ricamare, cantare, suonare e ballare». Dopo un'infanzia così non poteva che pensare di fare l'artista, ma per la figlia di una sarta e di un vigile urbano - che con «l'uniforme da ghisa e i baffi curatissimi sembrava proprio David Niven» - iscriversi all'Accademia di Belle Arti era proibitivo: perciò aveva dovuto affiancare alle lezioni di anatomia artistica il lavoro di vetrinista alla Rinascente. Dalle belle arti era passata al bel canto e alla buona recitazione: se non fosse che ai corsi di Esperia Sperani all'Accademia dei Filodrammatici l'avevano scambiata per una parente dell'altra Melato, Maria, attrice dalla cadenza misurata e solenne, e lei non aveva proprio gradito. Il suo modo di stare in scena infatti era volutamente diretto e persino un po' brutale, allo scopo di accorciare la distanza tra il pubblico e il palcoscenico, ma in fondo anche tra la vita e l'arte. La sua, di vita, in quegli anni si svolgeva soprattutto al bar Jamaica: il solo bar in cui, «nel clima schifoso, con freddo e nebbia» della Milano di quegli anni, «la gente si fermava a parlare anche con una ragazza secca e dura» come lei, che «non si sentiva bella, strana piuttosto».
Poi erano venute le scritture importanti, con Ronconi e Strehler - «mia mamma gli parlava sempre in dialetto e lui capiva benissimo, altroché» -, ma soprattutto il cinema, e quei ruoli, davvero indimenticabili, prima in «Mimì metallurgico ferito nell'onore» - il film girato da Lina Wertmuller nel 1972 e interpretato da uno stupefacente Giancarlo Giannini - e poi in «Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto», altro filmone wertmulleriano in cui il suo ruolo era ricalcato sul «modo di parlare della sorella di Krizia, che mi telefonò dopo la prima e mi disse: "sei una stvonza, pevò devo dive che mi hai copiato bene"».
Ovviamente la Melato era capace anche di esprimere una profondità drammatica che le veniva da un sottofondo amaro e tagliente. Negli ultimi anni, dopo aver ripreso casa nella metropoli ambrosiana e di nuovo in zona Brera, aveva tranciato giudizi durissimi sulla sua città.

«La Milano da bere si è trasformata nella Milano da vomitare. Io sono legata a una città sparita, coi suoi tassisti simpatici, i tailleur eleganti, la bellezza segreta dei cortili, il calore della gente, il forte senso dell'ospitalità».

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