«Sequestrate son le armi, disgregata è ormai la banda - più Milano non si allarmi, la Giustizia ora comanda - Questo grazie al contrattacco che costrinse quei ribelli - a cadere dentro il sacco del questore Zamparelli».
Sono passati sessant'anni da quando un anonimo milanese dedicò questi versi a suo padre, e Teresa Zamparelli riesce a recitarli senza i lucciconi. Ma forse andrebbero affissi all'ingresso di «Milano e la Mala», la mostra che si apre oggi: perché raccontano bene il rapporto di affetto, di fiducia, di riconoscenza che legava in quegli anni la città ai suoi poliziotti. Quando i rapinatori di via Osoppo - la «banda» di cui parla la poesia - vennero catturati, a Milano fu quasi festa. E il poliziotto che li aveva incastrati, Paolo Zamparelli, divenne addirittura un personaggio da fumetto.
Come andò davvero la cattura della banda?
«Iniziamo a ristabilire una verità: ad arrestarli fu mio padre, che in quegli anni aveva dato vita alla Squadra Mobile. Da Roma avevano mandato il questore Agnesina, perché il governo voleva una soluzione rapida. Ma davanti all'efficienza della rapina, mio padre lo aveva detto subito: questa è farina del sacco di De Maria».
Come faceva?
«Era un poliziotto di una volta, uno capace di andare travestito nei locali notturni ad ascoltare le voci. I delinquenti li conosceva uno per uno. Ma era soprattutto un poliziotto umano, e questo fu decisivo per risolvere il caso».
Perché?
«Anni prima aveva arrestato un certo Rossetti, detto Gino lo Zoppo: poi però si era preoccupato di aiutarne la madre, che era rimasta senza sostegni. Così lo Zoppo quando uscì divenne un suo confidente. Fu lui una sera a chiamarlo: dottore, venga e venga da solo; e gli diede la dritta finale. Ed era stato proprio De Maria, insieme a Ciappina e agli altri».
Che poliziotto era suo padre?
«Viveva in questura, a casa lo vedevamo davvero poco. Aveva una specie di fiuto: l'assassino di due vecchietti uccisi a colpi di ferro da stiro lo scoprì guardando i canarini che avevano in casa, andando a cercare il negozio che vendeva il becchime, e scoprendo che il garzone che lo consegnava ai vecchietti era sparito da qualche giorno: era stato lui. Ma una sera mi disse: sai Teresa, io la sera devo addormentarmi subito, non stare sveglio a pensare che c'è un innocente in galera. Una volta avevano ucciso una signora della Milano bene, la portinaia aveva indicato un tipo che si chiamava Nava e faceva le aste. Il commissario di Nardone, che era il vice di mio padre, voleva arrestarlo a tutti i costi. Ma mio padre non si convinceva, e lo lasciò andare. Alla fine si scoprì che era stato un altro».
I rapporti con i malviventi com'erano?
«Ho ancora le lettere di gente che lui aveva arrestato e gli scriveva: dottore, il mio primo figlio lo chiamerò Paolo. Erano orgogliosi di avere a che fare con lui. Una volta un barbone uccise un altro senzatetto perché gli dava fastidio cantando sempre vola colomba bianca, e sui giornali era diventato il delitto della colomba bianca. Quando al processo vide arrivare a testimoniare i sottoposti di mio padre il barbone si mise a strillare, ma chi sono questi, non li conosco, io ho parlato con Zamparelli!».
Com'era la Milano nera di quegli anni?
«Molto diversa da oggi: erano diversi i criminali ed erano diversi i poliziotti, ma era soprattutto diversa la città. A mio papà, che era di Benevento, i milanesi volevano bene: i commercianti, quelli che magari avevano più interesse a vedere i ladri finire in manette, ma anche la gente normale, di tutti i livelli.
Guardi qua (apre una busta piena di fogli ingialliti, articoli di giornale, lettere: una vita), questa è la lettera che gli mandò Gio Ponti, l'architetto che aveva disegnato il Pirellone». La data è 3 aprile 1958: «Onore all'eroe del giorno. Il vero pericolo per tutti noi è che lei abbia una promozione e lasci la nostra città!».
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