Un monumento a Musocco Milano ricorda Evita Perón

La prima desaparecida della dittatura militare argentina. Da morta, per evitare che anche il suo corpo diventasse oggetto di culto e incitasse al riscatto i suoi descamisados, i diseredati d’Argentina a cui in vita aveva dato tutto e a cui tutto avrebbe voluto dare anche da morta. «Voglio vivere eternamente con Perón e il mio popolo», aveva dettato nel testamento Evita Ibarguren Duarte de Perón già minata dal cancro al suo confessore padre Benítez. «Dio mi perdonerà che io preferisca restar con loro, perché Egli è con gli umili e io ho sempre visto in ogni descamisado Iddio che mi chiedeva un po’ d’amore che non ho mai rifiutato». Parole di fuoco, per sua volontà lette pubblicamente nella Plaza de Mayo, il luogo delle grandi manifestazioni di popolo su cui dà la Casa Rosada.
Toro con Marte nel segno. Decisa, testarda, passionale. La vita come un romanzo. E come un romanzo anche la morte. Il suo cadavere prima imbalsamato, poi trafugato dai generali perché troppo scomodo. Spedito in Italia sotto falso nome e sepolto a Milano, al Cimitero Maggiore. Grande e «anonimo». Campo 86, fossa numero 41, per quattordici lunghissimi anni sottratta all’adorazione del suo popolo, delle donne che grazie a lei cominciarono a votare e del marito. Finché il presidente Perón, terminato l’esilio, ne pretese il ritorno in Argentina. E da domani, cinquantatré anni da quel 26 luglio 1952 giorno della sua morte appena trentatreenne, in quello stesso campo, lì dove c’era la fossa, oggi occupata, una lapide ricorderà il suo passaggio. «La notte volge al termine e l’aurora è prossima. Il giorno dei popoli sta per nascere tra noi. Arriverà anche se avvolto da sangue e dolore, però arriverà... Evita». A scoprirla, alle 11, l’ambasciatore d’Argentina in Italia Vittorio Taccetti, il console generale a Milano Horacio Alberto Jaquenod, l’assessore ai Sevizi funebri Giulio Gallera e Mario Rotundo, presidente della delegazione italiana della Fundation por la paz y la amistad de los pueblos, l’associazione che ha tenacemente promosso e realizzato l’iniziativa.
Ma Evita a Milano venne anche da viva. Con Peròn in visita di Stato il 29 giugno 1947, accolti da Antonio Greppi, primo sindaco del dopoguerra. Il ricordo nelle immagini del suo passaggio alla Scala e alla Fiera. Ma anche la visita alle fabbriche dell’hinterland. Tanta gente, applausi, fotografi. Mica come il silenzio di quel 13 maggio del 1957, giorno della sepoltura in incognito e tappa di un’interminabile odissea. Cominciata il giorno della morte, con l’ordine di Perón di imbalsamarne il suo corpo prima di esporlo al pubblico per l’ultimo saluto. Operazione affidata al dottor Pedro Ara. Strano figuro che pretendeva di essersi occupato anche della mummia di Lenin. Sulla scrivania dello studio, l’ex professore di anatomia sfoggiava la testa «di un povero», imbalsamata così bene che Perón non ebbe dubbi. Per tredici giorni il corpo della «madre dei descamisados» avvolta in un sudario bianco e la bandiera bianca e azzurra. Accuratamente pettinato e truccato, esposto nell’atrio della Segreteria mentre in migliaia le rendevano omaggio. Una coda che arrivò a misurare più di due chilometri.
Poi un anno di trattamenti segreti. Immersione in sostanze misteriose, forse l’iniezione di una soluzione di formalina attraverso la carotide perché il liquido si espandesse nel sistema circolatorio. Alla fine il corpo deposto su un letto di seta e coperto da una cappa di vetro, l’intera camera ricolma di fiori. Niente luce, bassa temperatura. Due anni più tardi, il 16 settembre 1955, il colpo di stato che destituisce Perón. E i generali al potere che decidono di cancellare ogni traccia del passato. Troppo pericolosa, «...bisogna finirla, quella donna deve sparire dalla scena politica», sentenzia il generale Aramburu, succeduto a Leonardi alla presidenza dell’Argentina. Il corpo affidato al colonnello Moori Koenig con l’ordine di farlo sparire. Non bruciarlo, né profanarlo, condannarlo semplicemente all’oblio. Ma non avevano fatto i conti con i descamisados. Di notte la salma è caricata su un camion militare. La mattina seguente, nel luogo dove era posteggiato, ci sono fiori e una candela accesa. La mummia viene allora trasportata in vari edifici militari per scoraggiare e confondere i peronisti in caccia della loro Evita. Ma, ovunque la collochino, sul luogo compaiono sempre i fiori e la candela.
Spostamenti, inseguimenti e poi la decisione di far sparire definitivamente l’ingombrante reliquia. Un prete italiano viene incaricato di portarla il più lontano possibile. Il governo intercetta il feretro di una italo argentina. Maria Maggi de Magistris, in partenza per Milano, cimitero di Musocco. Il 13 maggio Evita, con il nome della legittima proprietaria della tomba, viene inumata sotto gli occhi di un presunto vedovo, signor Magistris e di padre Giuliano Madurini, della congregazione Compagnia di San Paolo, ancora vivo e presente domani alla cerimonia. Evita resta lì fino al primo settembre 1971, quando viene riesumata e consegnata a Perón nell’esilio spagnolo. Ancora tre anni, prima di tornare tra i suoi.

Come nel testamento. «Io sono nata tra il popolo e ho sofferto tra il popolo. Ho la carne, l’anima e il sangue del popolo. Io non potevo fare altro che abbandonarmi al mio popolo».
giovanni.dellafrattina@ilgiornale.it

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