Fisicamente non sta in corsia ad assistere i malati di Coronavirus ma il suo lavoro salva ugualmente tante vite, centinaia se non di più. Il Prof. Antonio Pesenti è il primario di Anestesia e Rianimazione al Policlinico di Milano ed ha la responsabilità di coordinare tutti i posti letto della Regione Lombardia. Li cerca, li apre e li gestisce, ed è un compito gravoso.
100 terapie intensive al giorno
La Lombardia è la regione più colpita dall'emergenza Covid-19 e l'attuale situazione regionale sta vivendo una fase di stallo ma con numeri, purtroppo, sempre molto alti. "È tranquilla in confronto alle settimane scorse, stabile su circa cento nuovi pazienti al giorno alle terapie intensie lombarde - afferma Pesenti - o siamo in cima all'onda, sul picco, oppure è una pausa temporanea".
Indossare sempre la mascherina
Come riporta l'intervista de la LaStampa, Pesenti è chiaro: se si vuole tornare, lentamente, alla normalità, la "conditio sine qua non" è l'uso costante della mascherina, da parte di tutti. Soltanto in questo modo si possono evitare nuovi contagi. Bisognerà tenerla anche quando la situazione sarà migliore di quella attuale perché è una "condizione ferrea" per poter riaprire, l'unica. "Chiunque entri in contatto con altri deve portare la mascherina" afferma il primario, che deve diventare parte integrante del nostro viso e dà le indicazioni per una costruzione "fai da te". "La mascherina tecnica serve solo ai medici, gli altri possono farla in casa con qualsiasi tessuto doppio".
Coordinatore dell'Unità di Crisi della Lombardia, il Prof. Pesenti sviscera alcuni numeri sull'apertura di nuovi letti in terapia intensiva. "All'inizio centinaia al giorno, valorizzando ogni angolo degli ospedali. Ora cinque al dì, una trentina alla settimana - afferma il Prof. - ma basta un piccolo focolaio a Milano che cambia tutto. Ci sono letti di riserva e in Fiera ne sono nati 48 e ne arriveranno altri 150 per i dimessi dalle terapie intensive".
Gli errori
Pesenti non definisce la carenza dei tamponi come l'errore più grande nella lotta al Coronavirus, bensì "un sistema sanitario che ha dimenticato il valore collettivo per quello individuale. Una volta i malati infettivi venivano isolati e costretti a curarsi. Con l’aids si è deciso che la privacy è predominante. Lo stesso vale per il Coronavirus, ma è difficile azzerare il contagio senza limitare i contagiati".
Dal suo punto di vista, l'errore è stato il taglio dei fondi alla sanità pubblica che hanno preferito investire in altre malattie sottovalutando le epidemie, che sono cicliche. "Si è speso molto per le malattie degenerative, cancro in primis, pensando che il resto si risolvesse con gli antibiotici. Invece, ogni cinque anni arriva un’epidemia e questa è la peggiore di tutte".
La "scelta" della terapia intensiva
Sulla ricorrente discussione di chi mandare in terapia intensiva e chi no, il primario spiega che, in casi di emergenza come questi, vanno pazienti che possono avere una chance di salvezza ed è inutile accanirsi con chi non ce la farebbe in ogni caso. "Non tutti i malati devono andarci, spesso non ne trarrebbero beneficio - spiega - si chiamerebbe accanimento o futilità terapeutica" e riporta l'esempio dei primi giorni, quelli più difficili, nei quali "arrivavano centinaia di malati e può essere successo che qualche medico non abbia trovato un respiratore, ma normalmente un novantenne o un malato polipatologico non viene mandato in terapia intensiva perché non ha chance di uscirne vivo. Si valuta caso per caso, non solo in base all’età, e il nostro mestiere è fare tutto il possibile".
La morte "per" Coronavirus, con il passare delle settimane, abbiamo visto che non è sempre, o soltanto, un problema che i riguarda i più anziani o i pluripatologici, ma anche i giovani.
" Ricordiamoci che si tratta di una malattia ancora ignota e più letale di come l’hanno raccontata i cinesi - afferma il primario - In Cina sono scomparsi 12 milioni di abbonati telefonici, dove sono finiti?".
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