Quegli scatti sugli anni '80 tra fotografia e giornalismo

Giovanna Calvenzi, vedova Basilico, presenta un libro sui maestri dell'obiettivo, tra Milano e New York

Quegli scatti sugli anni '80 tra fotografia e giornalismo

«Non ho la certezza che sia giudizioso ripubblicare queste interviste. L'intento didattico, le curiosita inesperte mi sembrano molto, troppo evidenti. Tuttavia l'insieme degli incontri rispetta alla perfezione la logica del traghettatore, che continua a piacermi».

Così scrive Giovanna Calvenzi, vedova del grande Gabriele Basilico, nella presentazione di Interviste (Postcart, 18 euro), nel quale raccoglie incontri con fotografi di primo piano. Calvenzi è un'autorità nel mondo della cultura fotografica, ma quel che rende il volume prezioso, oltre che giudizioso, è il periodo in cui le interviste sono state fatte: gli anni Ottanta. Calvenzi era giornalista alle prime armi. Ma già penna sicura del fatto suo: propose alla rivista Il Fotografo (Mondadori) di fotografare e intervistare professionisti che erano, e si sarebbero confermati, numeri uno. Nomi? David Bailey, Cuchi White, Gianni Berengo Gardin, Elisabetta Catalano; poi Robert Doisneau, Elliott Erwitt, Franco Fontana, Art Kane, Jacques-Henri Lartigue; e Jeanloup Sieff, Cheyco Leidmann, Oliviero Toscani. Non li citiamo tutti e venticinque: si tratta del «mucchio selvaggio» che a fine Novecento, mentre si spezzano gli equilibri globali di opposte ideologie, sperimenta linguaggi adatti a interpretare e anticipare lo spirito turbinoso del tempo. Non una corrente artistica, ma singole intelligenze impegnate a trovare la verità dello sguardo, se si crede che la fotografia sia letteratura visiva, capace di creare mondi. Gli intervistati sono ritratti in bianco e nero dalla stessa Calvenzi, tranne Toscani, fotografato da Toni Thorimbert.

C'è molta Milano, nel libro della milanese Calvenzi, cosmopolita per scorribande culturali, ma di innamorato radicamento meneghino. Le interviste si leggono come brevi racconti. Le pennellate didattiche che Calvenzi, severa, oggi addebita a «curiosità inesperte» sono invece il cavallo di Troia che permette al lettore di espugnare, meravigliandosi, gli studi dei fotografi a New York, Parigi, Londra, Milano, Roma.

Scopriamo Berengo Gardin di notte nella camera oscura, a Milano, a stampare, e da artigiano qual si vanta d'essere a costruire cornici, porte, finestre. Andiamo a New York, dove Elliott Erwitt, che da bambino visse a Milano, accoglie in perfetto italiano l'intervistatrice e si lascia fotografare con la figlia Andy e il gigantesco orso di peluche Bernini. Oliviero Toscani, già allora geniale spaccone definito «preporter» - uno che anticipa rispetto ai normali reporter -, parla di modelle e cavalli, non necessariamente in quest'ordine. C'è la storia del fotografo con studio in Paolo Sarpi, Enzo Tollini: ancora negli anni Ottanta lavorava con una macchina di legno a lastre, costruita nel 1905. E il novantenne Lartigue, l'uomo che amava le donne, artista tra massimi del XX secolo.

C'è Aldo Bonasia: raccontò la Milano della rivolta operaia e studentesca e il cupo mondo dell'eroina, che portò via la meglio gioventù. Dice una sentenza di Arbasino: «In Italia c'è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di bella promessa a quella di solito stronzo.

Soltanto a pochi fortunati l'età concede poi di accedere alla dignità di venerato maestro». Dei fotografi infilzati con amore dall'entomologa Calvenzi alcuni non ci sono più, ma tutti, italiani e stranieri, sono nella categoria maestri. E non per merito dell'età.

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