Nel cuore dei milanesi il Castello non è mai stato amato né è mai stato un simbolo. Lo è diventato. E ci sono voluti secoli. Solo dopo l'Unità, quando si trasformò in un centro di cultura, conquistò l'anima della città.
Prima di allora fu detestato. Guardato con distacco. Temuto. Costruito fra il 1360 e il 1370 da Galeazzo II Visconti, signore della zona occidentale di Milano, aveva inglobato la porta Giovia o Zobia. E il successore, Gian Galeazzo vi fece alloggiare le truppe stipendiate. Pianta quadrata, 180 metri di lato, il Castello era ora residenza.
Filippo Maria, l'ultimo dei Visconti muore nelle stanze del maniero lasciando una sola figlia, Bianca Maria, andata in sposa a quel Francesco Sforza che era un condottiero di ventura assoldato proprio da Filippo Maria per difendere la città. E così fece. Nel 1450 marito e moglie sono acclamati «signori di Milano».
La vecchia rocca però mostrava le ferite di tanti scontri e nel '52 lo Sforza ne decide non soltanto l'abbellimento, ma anche migliorie difensive. «Arruola» un architetto civile, il fiorentino Filarete che a Milano era di casa e uno militare, Bartolomeo Gadio al quale oggi è intestato l'attiguo viale.
Risultato, due massicce torri angolari rotonde a punta di diamante, più resistenti agli attacchi, la fortificazione della Ghirlanda viscontea. Ma è con Ludovico il Moro che il Castello si fregia dell'apporto di figure di eccellenza come il Bramantino e Leonardo da Vinci che il nuovo reggente, da buon mecenate di cultura e arti, aveva convocato.
Il Moro fa pulire i fossati, coprire i rivellini, riempire i muri esterni e stipa nel Castello viveri, artiglieria e munizioni. Il suo ruolo militare era confermato e i timori di un'insurrezione della folla offrivano a Ludovico un approdo sicuro che i milanesi guardarono in tralice. Sempre. Fino all'Ottocento.SteG
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