Un budello, un cunicolo; nulla più. La stretta Bagnera unisce via Santa Marta a via Nerino, pieno centro storico di Milano, 5 minuti 5 da piazza Duomo. Una via angusta, tanto che una piccola utilitaria fatica a passarci. Di certo una delle strade più strette d'Europa. È lì, abbandonata al suo destino. Vive attraverso le poche persone che la percorrono, calpestando i lastroni che la pavimentano e tra i quali spiccano centinaia di cicche di sigarette, cartacce, un paio di assorbenti femminili oltre le solite lattine e bottigliame vario. Perché sì, perché le periferie vanno sicuramente coltivate, abbellite, seguite, modernizzate, ripulite; ma anche dare uno sguardo alla vecchia Milano non è sbagliato. Soprattutto quando ha storie da raccontare.
E la Bagnera di storie ne avrebbe. Anzi, ne ha. Per esempio quella di Antonio Boggia da Carate Urio, approdato in città dopo varie peripezie intorno al 1830, il primo serial killer della storia italiana di cui si abbia notizia. Jack lo squartatore versione nostrana; ma, al contrario del suo sodale anglosassone per il quale sono stati consumati chilometri di pellicola, è stato dimenticato, ignorato, messo in un cantuccio con la speranza che nessuno lo citasse mai più. E proprio nella stretta Bagnera, in un magazzino di cui oggi nulla resta, il «mostro» portava le sue ignare vittime per finirle a colpi d'ascia, dopodiché le smembrava e le seppelliva rendendole irriconoscibili; per rapinarle, mica chissà cosa. Il Boggia, uomo timorato di Dio e ben inserito nel contesto sociale milanese, fervente frequentatore della parrocchia, con moglie e figli a carico, rubava e si ballava il denaro all'osteria. La sua vicenda narra di quattro persone trucidate. Scientificamente. Smascherato solo per la pervicace ostinazione dello zelante giudice Crivelli, il quale poco abboccò all'aria sgomenta del beatino Antonio. Che venne condannato a morte mediante impiccagione nel 1862. Destino strano il suo; ultimo ad essere giustiziato a Milano fino alla seconda guerra mondiale, primo colpevole punito con la morte dell'Italia da poco unita. Fatti di sangue da paura, di quelli che non racconti certo ai nipotini nelle fredde e torbide notti di scighera, quando la fitta nebbia avvolge e nasconde tutto. Un luogo con una storia terribile la Bagnera, ma che appartiene al substrato emotivo dell'anima meneghina. E fa male vederlo degradato e abbandonato a sé stesso. Senza tirare in ballo scomodi paragoni con Whitechapel, oggi rimesso a nuovo e pienamente amalgamato al resto della capitale inglese.
La nostra strada no; è triste, leggermente rinnovata dai tempi dei graffitari che ne avevano violentato muri e palazzi ma solo per il fatto che era diventata davvero impresentabile. È stato passato lo straccio, è stato portato via il grosso della polvere. Ma il miglioramento non è sostanziale: scritte e disegni sono stati ricoperti da vernici bicolori, grigio topo o beige indefinito, a scelta. Vecchiume su vecchiume. I palazzi sono quasi irreali, senza respiro. L'impressione di sporco ti circonda, un leggero olezzo di urina accompagna durante la percorrenza. Il senso di sciatteria e solitudine è presente, ben oltre il lecito e il dovuto. E le finestre che si affacciano sulla strada, chiuse. Serrate. Non per la canicola. Forse perché aprirle significherebbe essere costretti a vedere uno spettacolo che con la Milano moderna, quella del Bosco Verticale, ha poco da spartire.
Fatevi un giro nella stretta Bagnera, non vi preoccupate di storie e leggende. Come quella che racconta del fantasma del mostro.
Si aggira ancora oggi lungo lo stretto cunicolo e si palesa attraverso ventate gelide che colpiscono anche durante le calde giornate estive. È solo frutto della fantasia, della suggestione, del si dice e si mormora. La fantasia si ferma qui; il resto è una strada storica della città ridotta male, molto male. A cinque minuti cinque da piazza Duomo.
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