Qualche giorno fa era toccata a un ragazzino etiope di 14 anni. Fuggito dalla casa in cui viveva con la famiglia adottiva a Paderno Dugnano, si era tolto la vita impiccandosi a un albero, a pochi chilometri dalla sua abitazione. E aveva lasciato un biglietto d'addio in cui spiegava di voler farla finita perché non riusciva ad adattarsi all'ambiente in cui viveva. Venerdì mattina un altro ragazzo 18enne, stavolta brasiliano, è rimasto per 40 minuti in equilibrio precario con un piede sulla balaustra scivolosa dell'ottavo piano di uno stabile di via Novaro (Affori), tenendosi solo a un tubo, mentre gli agenti cercavano di parlargli per dissuaderlo dal lanciarsi nel vuoto. Anche lui adottato insieme al fratello diversi anni fa, il ragazzo non accetta che il padre adottivo, si sia separato dalla moglie per formare una nuova famiglia. Quando ormai sembrava che stesse per lanciarsi, due poliziotti, che nel frattempo erano riusciti ad avvicinarsi senza innervosire il giovane, lo hanno afferrato per la schiena e salvato. Non è stato comunque facile riportarlo alla calma, tanto che è stato necessario ammanettarlo per trasportarlo al soccorso psichiatrico dell'ospedale Niguarda. Ma ci sono ragazzi stranieri, appartenenti a particolari etnie che, una volta adottati, soffrono più di altri? Lo abbiamo chiesto al neuropsichiatra infantile Giuseppe Chiarenza, 65 anni, presidente del Cidai di via Edolo (Centro internazionale dell'apprendiemnto, dell'attenzione e dell'apperattività).
«In realtà non esistono etnie che soffrono più di altre - ci spiega Chiarenza -. Semplicemente molto spesso in questi bambini, sradicati dalla loro realtà natia e spesso vittime di periodi terribili in orfanotrofi stranieri, la ferita del trauma subito per l'allontanamento dalle proprie origini non si rimargina mai.
E, con una vita alle spalle carica di carenze affettive, questi sentimenti potrebbero accentuarsi ancora di più. Fino a provocare desideri suicidi».
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