da Roma
Dalla finestra dello studio di Vittorio Sermonti, all'ultimo piano di un'elegante palazzina del quartiere Fleming, a Roma, dove vive da 35 anni con la seconda moglie, Ludovica Ripa di Meana, quando la giornata è limpida si vede persino Palestrina, giù in fondo, appoggiata sul Monte Ginestro. E nel suo studio, stracarico di libri dietro il divanetto dove sono seduto si alza una parete dantesca, con Divine Commedie in quindici edizioni diverse, traduzioni in decine di lingue, commenti, studi e biografie parlando con Vittorio Sermonti, 86 anni, memoria stentorea e voce di ferro, s'intravede mezza storia di Italia, quella che lui ha sentito raccontare, ha sfiorato, vissuto, incrociato da comparsa o interpretato da protagonista: il tramonto del fascismo, la guerra, il dopoguerra, il boom, il grande cinema, la grande editoria, gli anni delle ideologie di piombo, gli uomini dalle idee preziose che ha incontrato negli anni, lui che è stato, ed è, scrittore, traduttore, giornalista, regista di radio, lettore. Vittorio Emanuele Orlando è stato suo padrino di nascita («anche se oggi i ragazzi pensano sia solo la via del Grand Hotel»), per la casa dei nonni ha visto passare da piccolo Luigi Pirandello e Enrico Cuccia, è cresciuto con Bassani, Garboli, Delfini, Pier Paolo Pasolini, Roberto Longhi, e da grande ha lavorato con Vittorio Gassman, Carmelo Bene e il grande Gianfranco Contini... Sesto di sette fra sorelle e fratelli Giuseppe Sermonti è genetista di fama mondiale, Rutilio Sermonti, morto l'anno scorso, è stato uno scrittore-ideologo della destra irriducibile con una vita così, prima o poi, devi fare i conti.
E i conti con la sua storia personale e con la Storia con la S maiuscola li fa con il romanzo Se avessero (Garzanti). Il cui sottotitolo, terribile, è «Opera ultima». Quando ha pensato che fosse il tempo della sua ultima opera?
«Ho cominciato a pensarlo quattro estati fa, sull'isola di Kythira, diciamo Citèra, in Grecia. Leggevo Vita e destino di Vasilij Grossman e quel libro strepitoso e terrificante mi ha attivato l'idea di un racconto in cui il sincronismo tra le vicende di me singolo individuo e gli avvenimenti della Storia esploda e si sbricioli. E mi sono detto: devo trovare un episodio attorno a cui fare ruotare tutta la mia vita, il ridicolo e il tragico dell'unica vita che mi è toccata. E l'episodio è quello in cui un ragazzino, il ragazzino che ero a 15-16 anni, è costretto con una certa brutalità a misurare il piccolo sé con la grande Storia».
E da lì si sviluppa il racconto-ricordo, dal maggio 1945 fino agli anni Ottanta.
«È un racconto spudoratamente autobiografico, ma non è una autobiografia. È qualcosa di meno, perché dentro non ci sono gli ultimi quarantacinque anni della mia vita, e qualcosa di più perché ci sono testimonianze e emozioni che appartengono alla storia d'Europa. Sincronismi in cui, appunto, si annida il ridicolo e il tragico dello stare al mondo».
Il romanzo inizia, finisce e in fondo si svolge interamente nell'ingresso del «villinetto» di famiglia, in zona Fiera, a Milano, dove accade un episodio minaccioso e imbarazzante.
«È il maggio 1945, guerra appena finita. Suonano alla porta, si presentano tre partigiani con i mitra di traverso sullo stomaco, e tutti noi, io quindicenne, i miei genitori, le mie sorelle, i miei fratelli, ci ritroviamo nel piccolo ingresso di casa aspettando gli eventi... Qualcuno aveva spifferato ai partigiani di aver visto entrare in casa, una sera, un uomo con la divisa da fascista. E effettivamente mio fratello maggiore era stato sottotenente di una delle divisioni della Rsi. E anche qualcos'altro... Quel giorno andò tutto liscio, perché mio fratello mostrò una tessera, posticcia, da anarchico, e si salvò, ci salvò. E io da allora, e per tutto il libro, mi chiedo cosa sarebbe successo a me, alla mia famiglia, alle persone che hanno incrociato le nostre vite, se avessero sparato a mio fratello».
Se avessero è un bel titolo per un romanzo. Ma la sua risposta è terribile: non sarebbe successo niente.
«Da quel lontano maggio ho preso in considerazione tutte le ipotesi, anche quella di morire io al posto di mio fratello e diventare così un eroe: i morti in guerra, imparai presto, erano oggetti eroici ed erotici, piacevano molto. E alla fine sono giunto alla conclusione che se avessero sparato a mio fratello sarebbe cambiato il mondo ma nessuno se ne sarebbe accorto. Tanto per citarmi, ripeto una frase del romanzo: Non contiamo niente, perché ognuno conta purtroppo tutto. Nulla sarebbe cambiato. Ecco una piccola verità».
Una delle verità che il libro racconta è che la sua fu una famiglia fascista. Fascista suo padre, repubblichini i suoi fratelli, giovanissimo balilla lei stesso che si presenta in una scuola-caserma della X Mas «nel fermissimo intento di lasciarsi arruolare».
«Ma non avevo compiuto 16 anni, e mi rifiutarono. Comunque il fatto che io come tutti gli italiani, o quasi, fossi e mi vantassi fascista, non fa notizia. Io sono cresciuto dentro una famiglia fascista, quella di mio padre, inoculata dentro una famiglia, quella di mia madre, di a-fascisti più che di antifascisti. Mi creda: la mia impressione di ragazzino era che a quel tempo di fascisti in Italia ce ne fossero in circolazione poco meno di 45 milioni...»
Poi tutti sono diventati improvvisamente altro.
«Salire sul carro del vincitore è quasi naturale. Non ho mai visto nessuno, in 87 anni di vita, salire sul carro del perdente. Comunque, alcuni hanno fatto la conversione in modo brusco e interessato, altri attraverso percorsi più complessi e generosi... Parlo anche di me? Il fascismo divenne sempre più difficile da sopportare durante la guerra: fame, freddo, bombe, almeno questo mi è sembrato di capire con la testa di un ragazzino, hanno reso la maggior parte degli italiani insofferenti al fascismo, fanatizzando gli altri pochi».
Suo fratello è rimasto fascista. Repubblichino, fu tra i fondatori dell'Msi e poi fu accusato di essere il punto di riferimento di un'associazione clandestina neofascista...
«Il suo fu un fascismo, come dire?, strutturale, che nasce con lui e si trascina fino alla sua morte. Ma voglio dire una cosa. È vero: sui vent'anni mi sono staccato da lui, praticamente non ci sentivamo più, e questo non solo e non tanto per ragioni ideologiche, ma per una radicale differenza nel fronteggiare l'avventura dello stare al mondo. Gli ho voluto bene come si vuole bene a un fratello maggiore: era biondo, bello, mi insegnava la botanica e l'anatomia, quando facevamo la guerra a cuscinate coi miei fratelli gemelli stavo sempre con lui, e vincevamo sempre. Anch'io salivo sul carro del vincitore...»
Le manca?
«Mi manca da tantissimo tempo».
Attorno al legame con suo fratello nel romanzo si intrecciano ricordi e riflessioni sui suoi amori giovanili e sull'Amore, sul sesso, sul rapporto padre-figlio, sul concetto di borghesia, sulla guerra.
«E sulle guerre in generale, sulla scuola, sulle mie letture, Dante in primis ovviamente, passione che ho ereditato da mio padre, e poi sul teatro, sulla musica, sull'Italia... Ecco: l'amore d'Italia, altra cosa che mi ha insegnato mio padre. Poi nei decenni ad amare questa patria ti davano del fascista, anche se eri iscritto al Pci: io, in effetti, passai dalla parte del nemico, e nel '56, prima dei fatti di Ungheria, mi iscrissi al partito, dopo l'Ungheria me ne andai, anche se poi per anni e anni ho scritto sull'Unità. E sull'amicizia, sul mio Novecento...»
E sulla scrittura. Che nel romanzo è complessa, curatissima, complicata persino.
«La scrittura è tutto. Lo stile è tutto».
È in finale allo Strega. Cosa pensa dei premi letterari?
«Me lo chieda dopo».
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