Il mio viaggio col macellaio della Jihad

Ucciso dagli israeliani Mohammed Shahade, 43 anni: era la mente dell’attacco alla scuola rabbinica di Gerusalemme costato la vita a otto giovani studenti israeliani. Era uno dei capi della Jihad islamica, ricercato da otto anni per numerosi attentati

Il mio viaggio col macellaio della Jihad

Ucciso dagli israeliani Mohammed Shahade, 43 anni: era la mente dell’attacco alla scuola rabbinica di Gerusalemme costato la vita a otto giovani studenti israeliani. Era uno dei capi della Jihad islamica, ricercato da otto anni per numerosi attentati

Da Mohammed Shahade mi portarono su una macchina scassata facendomi fare mille giri dentro e fuori Betlemme. Mi aspettava, un tipo atletico di 42 anni, un gigante con la barba nera seduto su un divanetto in una casa a due piani, con le galline nel cortile e voci di ragazzini al piano superiore. Aveva l’aria sbattuta, le occhiaie nere, l’M16 a fianco; mi parlò con tono gentile, si scusò nel dirmi: «Ci dovremo spostare fra quaranta minuti, sono quindici anni che mi cercano, ormai mi sanno individuare alla svelta, qualcuno che mi ha visto qui potrebbe telefonare agli israeliani». I suoi uomini sogghignano, si agitano un po’, mi controllano i documenti, cominciano ad abbozzare qualche domanda su quel cognome così strano per essere italiano. Shahade era uno dei grandi capi della Jihad islamica: lo cercai fino a trovarlo il 25 gennaio del 2006 perché, da latitante super ricercato, aveva fatto una strana scelta: candidarsi alle elezioni dell’Autonomia palestinese. Aveva fatto attaccare i manifesti nelle vie di Betlemme in cui il suo faccione feroce prometteva unità: già, lui non era né di Fatah né di Hamas, ed era un buon voto in favore del terrorismo religioso comunque. Sapevo che era stato implicato in due attentati grossi nel dicembre 2001 e nel marzo del 2002, più in molti altri attacchi, era un maestro in bombe, brandelli di corpi che volano, cinture. Un perfetto mandante, e anche uno che non faceva lo schizzinoso nell’agire personalmente. Sapevo anche che si era fatto sciita, una cosa straordinaria, quasi un tradimento per un sunnita: le due parti infatti si odiano. Lui lo ammise malvolentieri. Conosceva bene l’importanza politica della cosa: era il primo di quei palestinesi «iraniani» che hanno segnato il nuovo corso del terrorismo. La notizia di questa conversione, dopo la mia intervista, finì sul tavolo di Cheney per mano di un suo consigliere, l’orientalista David Wurmser. E fu studiata a fondo, secondo Wurmser.
Shahade mi spiegò con voce bassa, esausta, mentre io sedevo rigida su una poltrona alla sua destra e il mio stringer Nadem sudava, ambedue nel mirino di tre uomini che non si misero mai a sedere durante la nostra conversazione, che aveva 7 figli ed era stufo di scappare sempre; quindi, se Abu Mazen fosse riuscito a trattare con Israele la riabilitazione dei ricercati, lui era pronto a cedere le armi. Armi affilate, che nell’80 gli erano costate 25 anni di prigione, interrotta da uno scambio di prigionieri nell’85. Non mangiò nulla mentre i suoi uomini addentavano un panino con la shawarma; assaggiò alla fine un po’ di yogurt, svogliatamente, mi disse che anche se ricercato aveva sempre comunicato con mezzi elettronici e così avrebbe seguitato a fare in Parlamento. Parlava molto rapidamente. Si agitò molto quando gli chiesi se era vero che si era convertito alla Shia. Era vero, disse, ma che c’entra?
Passarono quaranta minuti. Grande e grosso, imbacuccato in una giacca di pelle nera, sollevò appena le palpebre quando i suoi gli mostrarono l’orologio: «Via, fuori di qui». Andiamo, mi caricano su un vecchio pulmino scassato, tutti tengono il mitra puntato fuori, comincia un interrogatorio serrato sul mio cognome, dico che ci sono tanti immigrati con cognomi stranieri in Italia. Uno di loro insiste: chiede se ci sono ebrei in Italia. Fu per fortuna che mentre mugugnavo «Pochi», una macchina rossa ci venne incontro troppo velocemente. L’attenzione cambio focus. Bloccarono di schianto, spalancarono le porte, saltarono giù pronti a sparare temendo che si trattasse di una pattuglia israeliana: penso sia stata la stessa scena esatta di ieri.

Ma quella volta, la macchina rossa era, o finse di essere perché vide me e il mio stringer sull’ultimo sedile, una macchina normale. Ieri, è andata diversamente. Il terrorista della Jihad Islamica Mohammed Shahade, che aveva coltivato per qualche giorno nel 2006 l’idea di smettere di spostarsi ogni 40 minuti, è stato eliminato.

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