"Il mio Zorro ironico e scorretto"

Intervista a Jean Dujardin. L'attore nel ruolo che fu di Alain Delon. "Sul set con Ficarra c'è stata subito intesa"

"Il mio Zorro ironico e scorretto"
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da Parigi

È la California messicana del 1821, sabbiosa e arida, quella dove la polvere si deposita ovunque, e si fa anche metafora: perché quella stessa polvere è anche la patina di immobilismo che rende il Messico un luogo di privilegi per pochi e ingiustizia per molti. Serve un giustiziere, anzi serve di nuovo. Perché un tempo c'era Zorro e purtroppo da vent'anni l'eroe mascherato vestito di nero in groppa al suo cavallo Tornado non si vede più. È questa la cornice dell'attesa serie televisiva Zorro, prodotta da Le Collectif 64 e Bien Sur Productions con France Télévision, disponibile su Paramount+ dal 6 dicembre, nella quale il mitico Zorro avrà il volto di Jean Dujardin e il suo fido servitore muto Bernardo quello del «nostro» Salvatore Ficarra. Il divo francese ci accoglie a Parigi per raccontare uno Zorro inedito. E da tanto tempo agognato.

Finalmente Zorro, sembra raccontare il suo celebre sorriso.

«Penso a Zorro da quando sono ragazzino. A dodici guardavo la serie americana con Guy Williams nei panni di don Diego de la Vega, e mi immaginavo su quel set. Quasi quarant'anni dopo mio fratello Marc ha deciso di produrre una serie e non poteva che pensare a me. Ho detto sì senza nemmeno aver letto la sceneggiatura».

Perché è uno Zorro inedito?

«Perché è pieno di ironia, e perché i generi deliberatamente si mischiano tra loro, passando dall'avventura, al dramma, alla comicità. Don Diego subisce un rapporto tossico con suo padre don Alexandro (interpretato da un sempre impeccabile André Dussollier - ndr), un uomo cinico dal quale eredita, alla morte di costui, il ruolo di sindaco del villaggio di Los Angeles, una carica che questo anti-eroe candido, per bene e convinto di poter dialogare in un mondo dove si spara e si ruba, non sa come svolgere».

Non è narcisista, non è prepotente non è maschio alfa e da anni delude la bella moglie Gabriela, interpretata da Audrey Dana: oggi non vincerebbe le elezioni e non guadagnerebbe follower sui social.

«Questo personaggio ha comunque il suo alter ego: suo malgrado dovrà far parlare la spada e i pugni. Ma resta un uomo gentile, benché non sia popolare avere questo atteggiamento, lo mantiene».

Nella storia affiorano battute ironiche sul politicamente corretto: don Diego ci tiene a definire i nativi americani «autoctoni» e non «indiani». È un gioco burlesco per parlare di oggi?

«Questo Zorro è un continuo rimando tra l'800 e oggi: inserire riflessioni di oggi in quel mondo ha un immediato effetto assurdo, molto comico».

Mezzo secolo dallo Zorro di Alain Delon: eppure nel calarsi in un personaggio così semiserio lei ricorda un altro grande attore francese, per cui ha sempre dichiarato grande stima: Jean Paul Belmondo.

«Ho sempre amato il coraggio di Belmondo, nelle sue scelte di artista e di uomo. Per me è un grande piacere questo accostamento».

Il suo servo muto Bernardo è Ficarra: che rapporto avete avuto?

«Immediata intesa chimica, qualcosa di molto raro. Già dalle prove luci sul set, i suoi occhi mi hanno fatto pensare a quelli di Peter Sellers. Io e lui veniamo entrambi dal cabaret, siamo partiti dalla comicità fisica. Salvatore arrivava sul set sempre con una idea nuova. È stato molto stimolante».

Come si è preparato fisicamente per diventare Zorro?

«Il ruolo è arrivato nel momento giusto, a 50 anni, più avanti non avrebbe avuto senso e sarebbe stato difficile. Ho cercato di esserci quasi sempre io nelle scene di scherma e combattimento. Non è giusto vedere una controfigura interpretare il tuo personaggio».

Con Zorro ha sfoggiato di nuovo il baffo di The Artist, il film muto di Hazanavicius con cui vinse l'Oscar: cosa le ha lasciato quel riconoscimento?

«Non una carriera negli Usa perché non avrei mai spostato la mia famiglia lì per vivere.

Vorrei tanto fare un film in Italia, mi candido per una parte magari insieme all'amico Toni Servillo, con cui ho già lavorato in Tre destini, un amore di Nicole Garcia. Tornando alla notte di Los Angeles, in albergo, mi sono portato in bagno la statuetta e ridevo: dunque, mi dicevo, ora sei l'attore più bravo al mondo. Ovviamente ero ben consapevole che non fosse così».

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