Per scoprire l'ambiguità di fondo che insidia l'esuberante contentezza della maggioranza per le truppe che sbarcano oggi in Libano, si debbono ripercorrere le strade che, per oltre mezzo secolo, da Perugia hanno condotto ad Assisi pacifisti veri e presunti tali.
Sì, pacifisti veri e presunti tali. Perché gli instancabili marciatori che nel secondo dopoguerra hanno riempito di slogan e bandiere le strade dell'Umbria si sono divisi sempre in due principali tipologie: quelli trascinati dall'utopia che, come Aldo Capitini, hanno creduto davvero in un mondo senza più la guerra; quelli i cui passi, invece, sono stati guidati dall'ideologia. Questi ultimi, in passato, hanno risposto al messaggio alla marcia che, immancabilmente, giungeva dall'Urss. Poi se ne sono sentiti orfani, ma hanno continuato a ritenere la pace un'arma di complemento da spianare contro le supposte pretese egemoniche dell'America.
Non voglio stabilire se sia stato più letale il pacifismo vero o quello presunto. In coscienza, non saprei cosa scegliere. Voglio constatare, invece, che nell'ultima sciagurata edizione della marcia, mandata in scena per sostenere una spedizione militare, la seconda filiera ha fagocitato la prima. A prevalere è stata la convinzione che la spedizione in Libano sia stata armata contro l'unilateralismo americano; sancisca il declino della superiorità tecnologico-militare dell'Occidente; rilanci il ruolo dell'Onu contro l'egoismo delle nazioni e, in particolare, d'Israele. Questo substrato politico-ideologico ha poi sostenuto l'immagine del soldato di pace, armato soltanto per difendersi nei casi più estremi. E ha consentito di seppellire sotto la coltre della retorica il rischio reale che vige a Tiro e dintorni, alimentato dall'odio razziale; da armi ricevute per uccidere; dalle contrapposte volontà di prevalere definitivamente e di difendere il diritto ad esistere per la propria patria.
Grazie a questo miscuglio - melmoso ancor più che viscido -, fatto di tanta ideologia, una buona dose di retorica e un pizzico d'utopismo, la maggioranza è riuscita a rendere più forte l'accordo al suo interno. Paradossalmente quando il rischio di perdite umane è oggettivamente più alto, non si ripresenteranno in Parlamento le richieste d'obbiezione di coscienza e le proclamazioni di sottomissione alla logica della pace sempre e comunque che ne avevano minato la compattezza ai tempi del decreto sull'Afghanistan. Non c'è da scandalizzarsene, moralisticamente; né va negato che, per questo, la maggioranza sia oggi più forte.
Si deve constatare, piuttosto, che se il governo Prodi può sostenere una linea di politica estera non più a scartamento ridotto lo deve, prevalentemente, a una interpretazione anti-occidentale della sua politica da parte della stragrande maggioranza delle sue «truppe». E ciò, inevitabilmente, trasforma la sua forza in forza apparente. Manca alla maggioranza la consapevolezza di ciò che realmente concede vigore alla sua azione di politica estera: la circostanza per la quale, a causa delle esigenze della guerra asimmetrica; di quelle tattiche legate alla sfida ultimativa del presidente iraniano; del montare di un conflitto intra-religioso tra sciiti e sunniti che potrebbe ulteriormente alimentare la spirale terroristica; delle difficoltà interne allo Stato ebraico, la sua soluzione è stata supportata dagli Stati occidentali più esposti nell'area, israeliani e americani in testa.
D'Alema e i più consapevoli nella maggioranza puntano a sfruttare tale disponibilità per spingere Hezbollah ad abbandonare la strada dell'odio terroristico per intraprendere quella della politica. Vi è qualcosa di vagamente auto-biografico in tale propensione che richiama quanto accaduto nel Novecento con i partiti comunisti occidentali. L'analogia è però debole, non fosse perché il Medio Oriente del 2006 non è, purtroppo, l'Europa del dopo '53, quando Stalin scomparve.
Lo scenario possiamo non augurarcelo, ma non si può fare a meno d'immaginare cosa accadrebbe in Italia semmai questo tentativo dovesse fallire e il fragile compromesso raggiunto all'Onu perdere ogni efficacia. Allora vi sarà chi, tra Perugia e Assisi, tornerà a predicare la pace assoluta e chi, invece, alla luce della nuova situazione, riposizionerà contro l'Occidente la vecchia arma pacifista. La maggioranza, in tal caso, tornerebbe a spaccarsi e, quel che è assai più grave, le nostre truppe ne subirebbero le conseguenze.
Se quel momento dovesse sciaguratamente giungere, quando nuovi slogan sotterreranno quelli odierni, allora vi sarà più bisogno di chi, accanto al tricolore, mantenga issate la bandiera con la stella di David e quella a stella e strisce. Non fosse che per questo, teniamoci forte.
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