Missione (quasi) impossibile

Da Sanpietroburgo a Roma: dieci giorni dopo il G8, che adottò con grandi fanfare una proposta di Kofi Annan per una forza di interposizione di caschi blu da schierare al confine tra Israele e il Libano, rivelatasi presto solo una trovata mediatica, il 26 luglio toccherà a una conferenza internazionale erede di un vecchio gruppo di contatto sul Libano tentare di trovare una soluzione al nuovo conflitto. Nonostante il trionfalismo di Prodi, che ha presentato la scelta della sede come una specie di riconoscimento al ruolo di «facilitatore» che egli si è assunto, neppure questa riunione offre grandi prospettive. Nonostante la presenza di tutti i grandi Paesi, della Ue e della Unione europea, dell’Onu, di alcuni Paesi arabi e del governo libanese, non si vede come possa incidere concretamente sugli avvenimenti in corso. Non ci saranno infatti, né Israele, né Siria e tanto meno Iran, cioè i veri protagonisti dello scontro. Condy Rice, che prima di sbarcare a Roma andrà a Gerusalemme a consultarsi con Olmert (oltre che con il presidente palestinese Abu Mazen) ha già detto a chiare lettere che neppure in questa occasione spingerà per un cessate il fuoco che riporti allo status quo ante, perché questo si limiterebbe a congelare il problema e a farlo ripresentare dopo pochissimo tempo; di fronte al muro americano le pressioni degli europei potranno servire al massimo ad accelerare la creazione di quel «corridoio umanitario» necessario ad alleviare le sofferenze della popolazione civile libanese. Per definire un assetto più stabile bisognerà invece - con buona pace di Kofi Annan, che continua a chiedere una fine immediata delle ostilità senza penalità per i colpevoli - che l’offensiva israeliana muti gli equilibri sul terreno.
La realtà, infatti, è molto più complessa di quanto non vogliano far credere le iniziative diplomatiche: alcune delle parti in causa, da Israele agli Usa, dalla Gran Bretagna ad almeno tre Stati arabi moderati alleati dell’Occidente e ostili all’Iran sciita, sono del parere che questa guerra - scoppiata in maniera quasi accidentale ma sviluppatasi poi al di là di ogni previsione - debba almeno produrre un risultato che, in prospettiva, possa poi facilitare la ripresa del processo negoziale tra israeliani e palestinesi: l’eliminazione, o almeno la neutralizzazione, dell’ala militare dell’Hezbollah, che avrebbe già dovuto essere smantellata due anni fa in base alla risoluzione 1559 dell’Onu, ma che invece da allora non ha fatto che rinforzarsi, fino a diventare una specie di truppa d’assalto al servizio dell’Iran nella sua campagna per la eliminazione dello Stato ebraico.
La liquidazione della milizia sciita e con l’assistenza tecnica e finanziaria di Teheran ha trasformato la zona di confine in una vera e propria piattaforma d’attacco contro Israele, si è rivelata tuttavia più difficile di quanto il governo Olmert prevedesse, rendendo necessaria non solo una spietata offensiva aerea, diretta alla distruzione di tutte le infrastrutture degli uomini di Nasrallah, ma anche una sanguinosa e prolungata offensiva di terra che lo Stato ebraico non aveva probabilmente messo nel conto. Il pericolo che l’operazione non possa essere completata nei sette-otto giorni di tempo che le diplomazie sembrano disposte a concedere a Israele (a patto che moderi i suoi attacchi contro obiettivi civili e la punizione inflitta a un Libano colpevole solo di inerzia) è perciò reale. Ma, al punto in cui siamo giunti, Olmert non può fermarsi prima di avere ottenuto la liberazione dei soldati rapiti e soprattutto prima di aver messo al riparo la metà settentrionale del suo territorio dagli attacchi di un nemico che, grazie alle forniture siriane e iraniane, dispone ancora di circa 10mila missili puntati contro lo Stato ebraico. Nonostante il pessimo ricordo lasciato dalla precedente campagna libanese, questo obiettivo sembra oggi condiviso dalla stragrande maggioranza degli israeliani, perché una vittoria decisiva contro l’Hezbollah segnerebbe un punto importante non tanto nel confronto con i palestinesi, che segue binari paralleli ma diversi, quanto nello scontro che oggi più preoccupa Israele: quello con l’Iran e i suoi alleati, che ha come posta niente meno che la sua stessa sopravvivenza.
Con tutto ciò, a Roma verrà certo ripreso anche il progetto d’una forza di interposizione, ma speriamo con più realismo che al G8.

Per inviare un corpo di spedizione Onu in una situazione come quella libanese, dovrebbero infatti verificarsi una serie di condizioni assai difficile da realizzare: 1) che le parti in causa siano d’accordo anche sui particolari; 2) che si arrivi a un armistizio che consenta lo spiegamento dei caschi blu; 3) che il Consiglio di sicurezza si metta d’accordo sul mandato da affidare al contingente che evidentemente non potrebbe essere solo di peacekeeping, ma dovrebbe conferire ai militari la possibilità di stroncare con la forza eventuali iniziative dell’Hezbollah; 4) che si trovino i Paesi disposti a partecipare, con forze adeguate e in tempi rapidi ad un’impresa ad alto rischio e presumibilmente di lunga durata. Quasi una missione impossibile tenendo conto che una corposa truppa dell’Onu nel Libano meridionale, con funzioni di vigilanza esiste già da ventisei anni ed è sempre risultata del tutto irrilevante.

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