Missione Unifil, 28 anni costellati di fallimenti

Nel 1978 primi contingenti in Libano: da allora un tragico bilancio di 257 morti

Mario Sechi

da Roma

Missione ad alto rischio. Gli analisti militari sono concordi. E appare davvero singolare che questo concetto sia entrato nella mente dei politici in ritardo, dopo molti giorni in cui si udivano soltanto le note della fanfara.
Bastava voltarsi indietro e guardare la tormentata storia della missione Unifil per rendersi conto che nel paese dei cedri non si può mettere in piedi una tradizionale missione di peacekeeping.
Le prime truppe Unifil arrivarono in Libano nell'ormai remoto 23 marzo 1978. Il compito era lo stesso di oggi: assicurare la stabilità nell'area al confine con Israele. Missione che naufragò nel giro di poco tempo. Nel 1982 le posizioni Unifil nel Libano meridionale vennero prese totalmente dalle milizie di Saad Haddad, capo del South Lebanon Army, una fazione armata supportata da Israele, responsabile dei massacri di Sabra e Chatila. Fin dal loro insediamento, le truppe Onu si trovarono tra i due fuochi di una guerriglia continua. Le tensioni lungo il confine sfociarono alla fine nel nel giugno del 1982 nell’invasione del Libano da parte di Israele.
Da quel momento e fino al ritiro delle truppe israeliane la missione Unifil non ebbe mai la possibilità di riprendere le sue postazioni militari. La missione divenne una semplice operazione di peacekeeping (di pura assistenza umanitaria, senza alcun potere sul fronte della sicurezza dell’area) ma nonostante la riduzione de facto del mandato, i morti e i feriti sono stati tanti, troppi: 257 morti, di cui 249 soldati, 2 osservatori militari, 2 componenti civili dello staff internazionale e altri 2 locali. Croci sparse sul campo di battaglia Medio Orientale, caduti di una forza di pace che non poteva neppure combattere. Di fronte a questi numeri e allo scenario del Libano del Sud, i timori sono dunque più che fondati.
Con il ritiro nel 2000 delle forze israeliane dal sud del Libano, Unifil riprese le sue posizioni all’interno della cosiddetta «linea blu». Ancora una volta però la missione delle Nazioni Unite fu vanificata: gli hezbollah in poco tempo usarono quell’area per sviluppare le proprie attività belliche contro Israele. Uno sconfinamento geografico che poi è diventato militare e politico, tanto da arrivare oggi alla definizione di Hezbollah come «uno Stato nello Stato». Il «cuscinetto» dell’Onu è stato nel corso della storia bersaglio d’artiglieria, una sorta di punching ball degli eserciti. Nonostante la palese agonia della missione, il mandato è stato rinnovato di anno in anno, con un obiettivo chiaro sulla carta (assicurare la pace nella zona e il disarmo di Hezbollah) e totalmente disatteso in pratica.
L’incidente del 25 luglio scorso, quando una postazione Unifil della base di Khiyam è stata colpita dagli israeliani causando 4 morti tra gli osservatori Onu, è solo il picco di un tracciato sismografico che nelle ultime settimane aveva registrato 145 incidenti di «fuoco ravvicinato» d’artiglieria, di cui 16 diretti sulle postazioni Unifil. Una situazione da conflitto ad «alta intensità», scenario drammatico che non dovrebbe essere replicato con il dispiegamento delle nuove forze, ma con il dilemma del disarmo degli hezbollah e l’ombra invece molto netta di un conflitto a «bassa intensità» tra i guerriglieri di Nasrallah e l’esercito israeliano. Il comando della missione Unifil oggi è affidato al generale francese Alain Pellegrini, le truppe da circa duemila dovranno crescere nel giro di pochi mesi a 15 mila.

I francesi però in queste ore - ben conoscendo le difficoltà del teatro operativo - hanno frenato sulla missione e aperto una lotta diplomatica con le Nazioni Unite sulla natura del mandato e le regole di ingaggio. La tentazione di Parigi sembra quella di impiegare in Libano meno fanteria possibile. Sono trascorsi ventotto anni, la missione Unifil continua a ripetere gli stessi errori.

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