Ne ricordiamo perlopiù le tute bianche, le maschere protettive, i guanti. Li immaginiamo in un ruolo tecnico-scientifico che li pone a una distanza quasi irreale rispetto alla mera concretezza di quanto devono cristallizzare attraverso metodologie e vetrini, quasi fossero più animali da laboratori asettici che investigatori di strada. Eppure gli uomini e le donne della Polizia Scientifica sono quelli che non mancano mai sulla scena del crimine, quelli dal lavoro silente ma risolutivo, quelli che in un'indagine fanno sempre la differenza, soprattutto grazie (ma non solo) all'analisi del famigerato Dna. «Ci siamo da oltre 120 anni, i Ris esistono da molto meno» spiega Anna Maria Di Giulio (nella foto), dirigente del Gabinetto Regionale di Polizia Scientifica per la Lombardia e tra gli ideatori della mostra La verità nelle tracce. Oltre 120 anni di Polizia Scientifica realizzata con impegno e passione da lei e dai suoi collaboratori al Museo della Scienza e della Tecnologia «Leonardo da Vinci» di via Olona 6 (sbrigatevi se volete visitarla, c'è tempo solo fino a domenica 26 gennaio!). Una esposizione che ha richiamato tantissimi visitatori, ma anche i vertici della Polizia di Stato tra cui Luigi Rinella, attuale direttore reggente della Direzione centrale per la polizia scientifica e la sicurezza cibernetica a Roma, ma che a Milano ha fatto buona parte della sua carriera.
Cuffie alle orecchie, la mostra si attraversa piacevolmente soffermandosi in ciascuna delle sette stanze in cui è divisa, accompagnati dal racconto corale del narratore, il giornalista di Mediaset Gianluigi Nuzzi, che intreccia le voci di testimoni e operatori su fatti di cronaca come la strage di via Palestro del 1993, ma anche lo schianto dell'aereo a San Donato nel 2021 o dell'incidente ferroviario a Limito di Pioltello nel 2020, ricostruito in 3D.
La Polizia Scientifica, però, è anche storia, come mostra la stanza dell'esposizione dedicata alle origini, dove si analizza il primo caso mediatico, quello dello smemorato di Collegno. «Come Scientifica nasciamo grazie a un discepolo di Cesare Lombroso, il medico legale Salvatore Ottolenghi - spiega Di Giulio -. Nel 1903 è lui che realizza quello che era un problema comune un po' a tutti, ovvero l'identificazione degli autori dei fatti: le persone venivano arrestate però non si riusciva a riconoscerle, le fotografie non erano sufficienti. Da lì partono il discorso del fotosegnalamento e il concetto dell'identificazione».
Dalla stanza dell'impronta digitale, si passa a quella dedicata alle riprese video in ordine pubblico, per poi entrare nel cuore della mostra, ovvero l'area dedicata a «la scena del crimine». Di Giulio racconta la mostra e parla lungamente di scienze forensi, quindi lascia la parola ai funzionari tecnici della Scientifica sulle prospettive di carriera nella polizia di Stato per diplomati e laureati in materie scientifiche. Ci confessa: «L'investigazione è sempre stata la mia passione, questo brivido per la scena del crimine l'ho coltivato dentro di me».
Alla Scientifica Anna Maria Di Giulio lavora dal 2010, ma prima era stata dieci anni alla Dia e prima ancora alla Squadra mobile di Firenze.
Alla Sezione Analisi crimini violenti della polizia scientifica a Roma e ha seguito, tra gli altri, casi di grande eco mediatica, come quello di Yara Gambirasio e di Alessia Pifferi. Emblematica fu la sua testimonianza in tribunale a Milano: Di Giulio fu la prima ad entrare nella casa di Ponte Lambro dov'era morta la piccola Diana.
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