Miu Miu e Vuitton: l’importante è contaminare

La moda porta in passerella gli incroci di civiltà. E Lanvin riscopre le divise da lavoro abbinate a abiti chic

Daniela Fedi

da Parigi

La modernità non è uno spazio libero, modernità è contaminazione. Abbiamo dovuto parafrasare Giorgio Gaber che in Dialogo tra un impiegato e uno non so parlava di libertà e partecipazione, per spiegare la profonda intelligenza del lavoro di Marc Jacobs per Louis Vuitton e di Miuccia Prada per Miu Miu.
Le due sfilate andate in scena ieri a Parigi hanno concluso l'interminabile stagione del prêt-à-porter femminile per la prossima estate nel migliore dei modi possibili. «Ho cercato di unire mondi diversi: i pizzi con la cultura urbana, il romanticismo delle vecchie bambole con la realtà pratica operativa delle donne di oggi» ha detto il quarantenne stilista americano che dal 1998 è direttore artistico della griffe più redditizia tra quelle controllate dal Gruppo Lvmh (Louis Vuitton Moet Hennessy) colosso francese del lusso mondiale. «Per questa collezione ho sperimentato un nuovo metodo di lavoro, direi quasi un processo dadaista: con quel che c'è succede qualcosa» ha invece dichiarato la grande signora del made in Italy spiegando poi di aver costruito in una sola settimana i 36 meravigliosi vestiti presentati ieri sera nella villa costruita ai primi dell'800 in stile Luigi XVI al 34 di avenue Foch.
Il risultato era a dir poco straordinario tanto per Vuitton quanto per Miu Miu. Marc Jacobs ha mandato in passerella un riuscitissimo mélange di generi e cose: le gonne a crinolina piene di ruches e volant realizzate però nel leggero cotone delle camicie estive da uomo, il classico panier settecentesco sui fianchi delle modernissime giacche da giorno, l'inconfondibile logo della maison sulle grandi borse in plastica riciclata che nel cosiddetto terzo mondo si usano per far la spesa, mentre nel nostro servono soprattutto a trasportare i falsi articoli firmati sul fiorente ma deleterio mercato della contraffazione.
Tutto aveva un fragrante sapore di leggerezza e novità, un'immagine femminile dolce ma allo stesso tempo indomabile che corrisponde in pieno alle donne di un certo tempo inquieto: il nostro. Per quel che riguarda Miu Miu l'effetto era in definitiva molto semplice grazie a un'incisiva ricerca di forme e proporzioni nuove. Rettangolari oppure tagliati a goccia, a rombo e a uovo, i modelli avevano spesso delle stampe con un deciso sapore futurista (per intenderci la cinetica furia dei disegni Balla) pur essendo totalmente riprese da alcuni grafismi africani. In più c'era anche un vago sentore di costruttivismo soprattutto nella spettacolare capacità di usare il colore a blocchi solo per definire la purezza delle linee geometriche intagliate nel raso «duchesse», classico tessuto dell'alta sartoria.
Se il diavolo veste Prada, l'angelo della raffinatezza contemporanea dovrebbe vestire Miu Miu. Inevitabile a questo punto chiedere chi sia la cliente-tipo di questo marchio nato come seconda linea e ormai trasformato in un brand a sé stante del Gruppo Prada. «È una a cui interessa la moda» sentenzia Miuccia annunciando di aver raddoppiato le vendite da quando la scorsa stagione ha deciso di trasferire la sfilata della griffe dalle passerelle milanesi a quelle parigine.
Ottima prova anche da Alber Elbaz per Lanvin, storico marchio della profumeria francese proiettato nell'olimpo dei nomi che dettano le tendenze della moda dall'indiscussa creatività del timidissimo stilista d'origine sefardita.


La collezione potrebbe essere definita da meccanico chic per l'interessante ricerca di una possibile contaminazione tra le tute e i tubini, le divise da lavoro e gli abiti di uno chic folle delle vere signore, l'uso dei tessuti cangianti dai metallici bagliori e la verticalità delle forme perfino in caso di pieghe, drappeggi e plissé.

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