Miyazaki, il maestro giapponese che rende magici i cartoni

Il Leone alla carriera celebra un regista spesso indicato semplicemente come «il Disney nipponico»

Pedro Armocida

Se non esistesse già, uno come lui bisognerebbe inventarlo. Certo a leggere il curriculum (laurea in scienze politiche ed economiche) e anche a guardare le foto non direste mai che quel signore un po’ anonimo, dagli occhi a mandorla sovrastati da ordinatissimi capelli lisci bianchi che finiscono in un morbido pizzetto, sia il massimo autore vivente giapponese di cartoni animati o «anime», come li chiamano da quelle parti. E invece sì, Hayao Miyazaki, fantasia allo stato puro, nato a Tokyo nel 1941, è il creatore di una serie strabiliante di personaggi che rimangono impigliati nella memoria dello spettatore lasciando una sensazione di leggerezza e incanto.
Il mondo di Miyazaki, approdato in Italia solo nel 1997 con Princess Mononoke (il più grande incasso nella storia del cinema giapponese) prima della consacrazione nel 2001 con La città incantata (Oscar e Orso d’oro al Festival di Berlino), riporta quasi magicamente alle atmosfere e alla bellezza della vita e delle opere di un occidentale come Antoine de Saint Exupéry. Forse perché, proprio come il padre del Piccolo principe, anche Miyazaki ama il volo, che non manca mai nei suoi film, popolati soprattutto di ragazzi intrepidi alle prese con avventure virate sempre su tematiche impegnate: la lotta dell’uomo, segnato dal progresso e dalla tecnologia, con la natura e quindi l’ecologia; l'odio e l'intolleranza e quindi la guerra.
Ragione in più per approfittare dell’occasione che la Mostra di Venezia il 9 settembre offrirà in occasione della consegna del Leone d'oro alla carriera a Miyazaki, il primo a un regista d'animazione, con la proiezione di tre suoi film ancora inediti in Europa: Nausicaa della valle del vento (1984), Porco rosso (1992) e On Your Mark (1995). Ma nello stesso giorno in cui il riservato e timido Miyazaki (si descrive da sempre come «un semplice artigiano») salirà le scale del Palazzo del cinema, uscirà nelle sale anche la sua ultima opera, Il castello errante di Howl (tratto dall’omonimo romanzo di Diana Wynne Jones edito da Kappa Edizioni), che si distingue per una purezza tecnica dell’animazione, mista fra tradizionale e digitale.
Dal direttore di Venezia, Marco Müller, che di Oriente certo se ne intende, arriva una puntuale descrizione dell’opera di Miyazaki: «È il gigante che ha fatto saltare le pareti dentro le quali si era voluto incasellare il cinema giapponese d’animazione. Troppo frettolosamente, infatti, lo si è indicato come il “Disney giapponese”, riducendo a parametri per noi consueti un’energia creativa, una visione assolutamente fuori dell’ordinario. La filosofia di Miyazaki unisce romanticismo e umanesimo a un piglio epico. Il senso di meraviglia che i suoi film trasmettono risveglia il fanciullo addormentato che è in noi».
Il ricorrente riferimento a Disney infastidisce lo stesso Miyazaki, chissà perché visto che è poi la major statunitense a distribuire i suoi film in tutto il mondo, anche se è certo che con il genio statunitense condivide almeno una cosa, l’abilità nell’aver creato un grande studio d’animazione cui ha affiancato anche un museo. Entrambi li ha voluti chiamare non con il suo nome, ma Ghibli. Sì perché lui, il più occidentale degli animatori nipponici, è un grande appassionato di viaggi.

Così all'epoca della creazione della leggendaria Heidi si è recato in Svizzera per documentarsi dal vero sugli scenari, per poi trasferire nei suoi film suggestioni di un’Europa più o meno fantastica: la Francia nel suo primo lungometraggio da regista, Lupin III: il castello di Cagliostro; il Galles in Laputa: il castello nel cielo; un’Italia immaginaria degli anni Venti in Porco rosso, dove l’eroe è un aviatore antifascista la cui testa si è tramutata in un maiale.
Ma attenzione a cercare metafore azzardate, Miyazaki non le ama e con la sua calma proverbiale vi spiegherà che i suoi film sono pieni di maiali «semplicemente perché più semplici da disegnare».

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