I ritmi dolci della vita di mia nonna erano scanditi dall’appuntamento quasi quotidiano con il lavoro a maglia.
Il pomeriggio, seduta sulla sua comoda poltrona nell’angolo più luminoso del salotto, sferruzzava.
Accanto a sé un piccolo arcolaio di legno ed un cestino di vimini ricolmo di soffici gomitoli infilzati da lunghi aghi.
Era il suo “passatempo rilassante".
Aveva appreso la tecnica da sua mamma, acquisendo quella sicurezza tipica dei pianisti consumati che eseguono brani perfetti senza osservare più dove si appoggeranno le dita sulla tastiera.
E creava pezzi unici, per le sue quattro nipoti.
Che in attesa di essere iniziate all’arte della maglia, quando l’età l’avrebbe permesso, si rifugiavano nella fantasia e nell’immaginazione, facendo incursioni tra gli scaffali delle magiche botteghe specializzate in filati.
I gomitoli ideali, per di essere scelti, andavano osservati, maneggiati, stretti in pugno e portati al naso con discrezione per coglierne fugacemente l’odore prima di essere avvicinati alla guancia per testarne la morbidezza e scongiurare l’odioso fastidio della lana che punge.
Era lì che si consumavano lenti rituali sensoriali condivisi da generazioni di donne.
Dove gli uomini difficilmente si sentivano a proprio agio.
Nell’immaginario collettivo il lavoro a maglia era ancora considerato un’occupazione da tramandare di madre in figlia (o da nonna a nipote) adatta a bambine e donne delicate.
E si presentava come un’arte tattile, esclusiva, adatta a “mani di fata”, per parafrasare il nome della omonima rivista italiana tutt’ora in auge, nata nel 1925, che connotava le sue pubblicazioni come “specializzate in lavori femminili”.
Che evidentemente scoraggiavano qualunque incursione maschile nell’universo del lavoro a maglia.
Ma non fu sempre così.
Ci fu un’epoca in cui anche gli uomini sferruzzarono senza sosta.
Negli Stati Uniti, durante la Prima guerra mondiale e anche nella Seconda, i maschi furono esortati ad impugnare i ferri.
E lavorare a maglia divenne un dovere patriottico.
“Knit for Victory” era il motto che incitava chiunque a imbracciare aghi e matasse per la vittoria.
Chi non si recò al fronte tra gli uomini dovette contribuire al mastodontico sforzo di produrre insieme al resto della popolazione attiva (bambini compresi) circa 1,5 milioni di capi tra maglioni, berretti e calze, da inviare al fonte per aiutare i soldati a resistere alle durissime condizioni climatiche della vita di trincea.
Gli archivi fotografici nazionali degli Stati Uniti conservano foto di prigionieri nelle carceri di Sing Sing che lavorano a maglia nelle ore di aria, o di pompieri e capo treni istruiti da membri della Croce Rossa mentre apprendono l’arte dei ferri.
Ma anche di militari e i feriti di guerra degenti in ospedale che uniti nello sforzo confezionano i capi richiesti.
Il knitting maschile, sdoganato dai poster di propaganda dell’epoca che mostravano uomini intenti a sferruzzare con scioltezza, veicolava il messaggio che anche i maschi potessero naturalmente praticarlo.
Facendo crescere il numero di fans che continuarono a coltivare la passione in epoche successive quando vennero meno le ragioni belliche che lo avevano lanciato.
Come confermava Edith Gosden, responsabile acquisti del dipartimento di filati di un noto grande magazzino di Brooklyn in un’intervista rilasciata al New York Times nel 20 agosto del 1959:
“Molti uomini hanno imparato il lavoro a maglia durante e dopo la seconda guerra mondiale. Quando venne insegnato come hobby e terapia negli ospedali…Trovandolo rilassante alcuni uomini hanno continuato a lavorare a maglia ma si vergognano di fare acquisti così mandano avanti le loro mogli”.
Tra più di 500 visitatori settimanali tra bambini, uomini e donne nel reparto specializzato del negozio si legge sull’articolo “ci sono mogli per le quali i ferri per lavorare a maglia sono sconosciuti quanto le bacchette (usate nella cucina asiatica ndr)” suggerendo che chi acquistava i filati non era sempre la persona che li lavorava.
E che per ragioni culturali sferruzzava sotto copertura.
Anche Miss Ulanov istruttrice di lavoro a maglia nello stesso reparto, confermava che la vergogna frenasse molti tra i suoi allievi, asserendo che l’unico che osasse lavorare a maglia alla luce del sole e senza remore, costituendo un’eccezione, era uno psichiatra.
L’aspetto terapeutico del lavoro a maglia, adombrato dalla casus belli, fu quello che resse e spinse gli uomini verso la sua direzione.
Gli esperti sono d’accordo nel riconoscere che i benefici derivati dalla pratica di questo hobby sono numerosi e visibili.
Il lavoro a maglia sarebbe assimilabile alla pratica della meditazione.
Lo stato di concentrazione prolungato durante il lavoro favorirebbe la ristrutturazione cognitiva e la riduzione del rimugino generando un senso di relax, al di là del fine e del risultato ottenuti, che allontana lo stress, migliorando l’umore e la memoria.
Durante i tempi bui del lockdown il knitting è stato protagonista di un exploit senza precedenti e grazie all’uso di instagram tanti uomini appassionati di lavoro a maglia ci hanno messo la faccia, oltre alle mani, mostrandosi senza vergogna.
È il caso del professore norvegese Birger Berge con più di 42 mila followers al seguito che riabilitato l’immagine dell’uomo che sferruzza in pubblico destando anche l’interesse dei media.
Accanto a lui, persone più note come Tom Daley, il tuffatore britannico che ha collezionato 3 ori ai mondiali, hanno contribuito a divulgare l’immagine pubblica dell’uomo che lavora a maglia e delle proprietà antistress che ne derivano, che nel suo caso lo aiutano a domare l’ansia da prestazione prima di una gara.
Una passione che lo ha spinto a
pubblicare recentemente il libro “Made with love” dotato di un kit con 30 modelli per divulgare le tecniche del lavoro a maglia e condividere con altri il segreto per gestire adrenalina e paura e trasformarle in concentrazione.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.