Il mondo visto da Dickens

Alla riscoperta dell'autore che fece della società preindustriale uno scenario shakespeariano e inventò l’arte dei chiaroscuri violenti nel romanzo. Imparate, giovani autori...

Il mondo visto da Dickens

Anche se non ricorresse nel 2012 il bicentenario della nascita, varrebbe la pena di riflettere su quel prodigioso genio del romanzo che fu Charles Dickens e sulla attualità della sua opera.
I frutti della sua immaginazione fervida e incantatoria sono stati trasposti in centinaia di versioni teatrali, musicali, cinematografiche, televisive, tanto che Mr. Picwick, Oliver Twist, David Copperfield, Ebenezer Scrooge sono personaggi conosciuti anche da chi non saprebbe minimamente collocare Dickens nella storia letteraria inglese. Durante la proiezione dell’ultimo recente film in 3D tratto dal Canto di Natale, ricordo che vidi molti bambini piangere spaventati. Non mi stupii. Quello è il più tipico effetto Dickens: anch’io quando ero bambino fui terrorizzato dalla lettura di certe sue pagine.

E nello stesso ne subii una fascinazione che non è più finita. Perché Dickens, che esordisce come insuperabile umorista nel Circolo Pickwick, senza rinnegare nulla della sua capacità di far sorridere e ridere, sceglie poi di narrare a tinte fortissime, mostra abissi di sofferenza e di malvagità, paradisi di bontà e innocenza sempre offesi e perseguitati, destini che devono compiersi in un percorso pieno di ostacoli e di insidie.

Se l’infanzia e l’ingenuità sono il bene, il male come un’ombra fredda grava sempre su di loro. L’arte di Dickens è quella dei chiaroscuri violenti. Assomiglia a un altro gigante: Victor Hugo. Anche se quest’ultimo, essendo poeta e francese, elabora una teoria, quella del «grottesco», e sottolinea i bagliori metafisici, di infinito, dei suoi romanzi. Mentre Dickens sembra praticare il grottesco direttamente, in forme più pragmatiche, tese a meravigliare, fidelizzare e in definitiva a divertire il lettore. Dickens stesso ebbe una infanzia difficile, vide il padre, un piccolo impiegato, finire in prigione per debiti, conobbe a dodici anni la durezza del lavoro in una fabbrica di lucido da scarpe. Insomma, visse di persona gli incubi peggiori della società britannica nel momento dell’esplosione della sua potenza industriale e coloniale.

Ed è sempre con una lente deformante, da incubo, che descrive la Londra dei suoi tempi, dalle vie dove corrono le bande di ladri bambini al servizio di Fagin in Oliver Twist sino alle atmosfere cupe, nebbiose, fangose del Tamigi nel Nostro comune amico, forse il suo libro più crudo e più nero. Dickens si iniziò alla scrittura come cronista parlamentare, e qualcosa di giornalistico rimase nella sua vena di romanziere. Del resto, ci fu una feconda vena giornalistica in Walt Whitman e in Edgar Allan Poe. E ci fu in Dickens una capacità mimetica che non si restringeva nel realismo, ma si esaltava nel teatrale. Divenne attore di se stesso, in seguitissime letture pubbliche dei suoi romanzi in Inghilterra e in America. E seppe dare ai suoi personaggi qualità di eloquio e di movimento come se li presentasse su una scena.

I suoi caratteri, che a una critica malevola poterono sembrare bozzettistici, superficiali (tali apparvero a Henry James), sono in realtà archetipi di vizi e virtù che non hanno niente di astratto e ideologico, ma anzi si affermano con una poderosa variegata vitalità che li impone alla nostra memoria, e, sia pure con minore spessore poetico, ne fa figure di caratura shakespeariana. Figure cui è naturale diventare proverbiali, come in David Copperfield Mr. Micawber, lo sventato ottimista, o Uriah Heep, il viscido ipocrita. Nessun tono è precluso a Dickens. La sua pagina può sapere di avventura, di denuncia sociale, di sublime, di comicità, di grottesco, di favola, di satira. In Martin Chuzzlewit il suo primo viaggio oltre oceano gli fornisce elementi per una satira ferocissima della società americana, in cui tanto sperava e con cui si riconciliò più tardi: «in questa parte del mondo amano tanto la libertà da venderla e comprarla e portarla al mercato», dirà un suo personaggio. Insomma, leggere e rileggere Dickens è una delle esperienze più ricche e entusiasmanti che ci può capitare.

Un maestro del romanzo novecentesco come Vladimir Nabokov scrisse che «la prima cosa che notiamo nello stile di Dickens è il suo repertorio d’immagini intensamente sensuali». E descrisse con mirabile precisione analitica la varietà dei suoi modi linguistici e narrativi. C’è qualcosa di vivido e di incantatorio in lui. Che, per me, riscatta sempre il suo moralismo patetico. In questo nostro tempo di grigiore uniforme e diffuso, i suoi chiaroscuri potenti in cui bene e male, innocenza e malizia, povertà e sfruttamento si affrontano, possono ancora nutrirci.

Se i romanzieri italiani, intossicati da veti e da pregiudizi, cominciassero a considerarlo un maestro, insieme a Victor Hugo, forse potrebbero riprendere coraggio a raccontare la complessità comica e tragica del mondo (e non baloccarsi con le scartoffie di una letteratura morta e sepolta).

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