Abbiamo forzato il muro di Orbàn ​seguendo i profughi siriani

Abbiamo camminato per ore nei boschi sulle tracce dei migranti disposti a tutto pur di arrivare alla Germania. Scoprendo che il muro dei magiari è tutt'altro che impenetrabile

Abbiamo forzato il muro di Orbàn ​seguendo i profughi siriani

Alle 11.45 di mercoledì arriviamo alla stazione ferroviaria di Palic, poche case nella campagna serba. Tra gli alberi una cinquantina di siriani in partenza per il confine ungherese, che dista appena qualche chilometro. Ci avviciniamo, ci presentiamo. Buongiorno siamo giornalisti, vorremmo venire con voi. Benvenuti, si parte subito.

Dicono di essere tutti siriani, poi scopriamo che non è così. Ci sono siriani, iracheni, libanesi. Con noi viaggiano almeno una decina di bambini, lattanti di otto mesi e ragazzini adolescenti. Due le donne incinta, sette o otto gli anziani oltre i sessant'anni.

Camminiamo per mezz'ora tra le case, villette bianche con giardini ben curati. I cani abbaiano al nostro passaggio, ma i padroni serbi non voltano nemmeno la faccia.

Lasciate le ultime case di Palic, imbocchiamo uno sterrato che si perde nella campagna. Pochi metri e tagliamo per i campi. Granturco, finocchietto, alberi da frutto. Chiacchiero con chi parla inglese, scopro che nel gruppo ci sono un oncologo, un insegnante di inglese, un video editor.

Nella foresta

Al primo boschetto ci fermiamo a riposarci. Abdullah, il capo spedizione, controlla la strada. Ha uno smartphone ultimo modello per consultare costantemente il Gprs. Mi spiega che non taglieremo direttamente verso il confine, ma lo fiancheggeremo a lungo fino al punto più adatto per il passaggio, nel folto della foresta.

Dopo un paio d'ore di marcia, il sentiero si smarrisce tra gli alberi. Passiamo una mezz'ora di passione per cercare la via, ma alla fine ritroviamo la strada. Un'altra ora di cammino e ci fermiamo per mangiare.

Le donne si tolgono le scarpe per massaggiarsi i piedi, i ragazzi dormono, qualche bimbo gioca con la sabbia del sentiero. Un vecchio stende a terra un tappeto e inizia a pregare rivolto verso la Mecca.

Io e Maurizio, il fotografo, non abbiamo cibo né acqua, non immaginavamo che la marcia sarebbe durata tutto il giorno e la sete inizia a farsi sentire. Mentre faccio alcune riprese ai profughi che si riposano sento qualcuno che mi tira per i pantaloni: è Falloumi, una bambina di sei anni che mi tende una manciata di noccioline. Poco dietro, suo padre mi guarda e sorride.

Prima, durante la marcia, ci eravamo scambiati appena un timido “salam”. Lei, sulle spalle del padre, aveva protestato con lui perché io parlavo solo in inglese. Ora, tutta vergognosa, è venuta a offrirci del cibo.

Il muro di Orbàn

Riprendiamo il cammino. Arriviamo a una fattoria, dove un contadino serbo ci avverte: siamo a pochi metri dal confine, ma la via è libera. Dopo un rifornimento d'acqua nella stalla partiamo.

Usciamo dal bosco e attraversiamo alcuni campi. Ancora due filari d'alberi e ci siamo. Di fronte al famigerato muro di filo spinato costruito dal primo ministro ungherese Orbàn.

Non ha un aspetto minaccioso: dei rotoli di filo spinato ammonticchiati in una strada sterrata. Pur non essendo molto alto, io lo supero di una spanna.

Occhieggiamo dai cespugli, non si vede nessuno nemmeno sulle torrette di osservazione. I capi spedizione escono allo scoperto e lavorano per superare la barriera. Il filo viene avvolto in delle coperte e sollevato da terra di cinquanta centimetri. Gli zaini sono lanciati dall'altra parte, i bimbi fatti passare al di sopra del filo spinato.

Uomini e donne strisciano nella polvere, una donna grassa e goffa si taglia con le spine. In pochi minuti mi rendo conto che io e Maurizio siamo tra gli ultimi rimasti in Serbia, bisogna andare. Passo lo zaino dall'altra parte, qualcuno mi regge la borsa con la telecamera e sono in terra. Due gomitate nella sabbia, testa bassa e lavorare di ginocchia. Siamo in Ungheria, clandestini.

Nemmeno il tempo di accorgersene che già l'ultimo profugo è passato, mi prende per il gomito e corriamo a rotta di collo fino ai primi alberi.

Oltre confine

Ora inizia il tratto più pericoloso. Forzare la recinzione confinaria è un reato penale per cui sono previste pene molto gravi. Se la polizia ungherese li sorprende qui i profughi verrebbero avviati a un centro di identificazione dove verrebbero loro prese impronte digitali e foto segnaletiche. Volendo tutti andare in Germania, questo pone un problema. I siriani verrebbero accolti comunque, ma gli altri rischierebbero di essere costretti a richiedere asilo in Ungheria.

Qui assistiamo a uno spettacolo incredibile: dagli zaini spuntano magliette bianche con il volto di Angela Merkel e il tricolore tedesco, “Wir lieben dich Angela”, ti amiamo. Hanno portato anche una bandiera ungherese da srotolare nel caso incontriamo la polizia.

Mentre ci addentriamo nella campagna, magiara, però, non si vede nessuno. Dopo l'ennesimo granturco, sbuchiamo in campo aperto, a duecento metri da una fattoria. Le mucche ci guardano placide, ma i cani iniziano ad abbaiare furibondi.

Da una casa escono due uomini, il padre con i baffoni da Cecco Beppe e il figlio biondo con le infradito e le cuffie della musica al collo. Sporgendosi sopra una staccionata in legno distribuiscono ai profughi delle bottiglie d'acqua, provano a chiedere dieci euro. I migranti spiegano che non ne hanno e quelli non insistono. A gesti ci indicano la direzione del primo villaggio.

Il capo dei siriani avrebbe un appuntamento con un connazionale che dovrebbe fornire loro taxi e macchine, ma il fixer non risponde. Ci sono attimi di tensione quando due membri del gruppo si perdono nelle campagne, ma dopo poco le guide decidono che sono abbastanza adulti per cavarsela da soli.

Verso la civiltà

Arriviamo su una strada asfaltata che ormai inizia a fare buio. Dopo ore di cammino i profughi sono sfiniti. Una madre con un bimbo in collo prova a fermare le rare macchine che passano. Nessuno si ferma. Persino l'ultimo autobus della sera tira dritto, anche di fronte allo sventolio dei soldi e dei passaporti italiani.

Tutti hanno paura della polizia. Solo un vecchietto incartapecorito con un viso da tartaruga ci ospita nella sua casetta da fiaba dei fratelli Grimm. Offre un bicchiere di latte ad Adam, dieci mesi. Battendosi il petto, pronuncia “magyar” e si indica il cuore: anche se è evidentemente ubriaco, tiene a spiegarci che gli ungheresi hanno il cuore grande.

Ma il sole già scende e camminare di notte nella foresta non è consigliabile. I profughi decidono di accamparsi in un tratto riparato del bosco. Hanno perso le speranze di trovare i taxi, aspetteranno il mattino. Sfiniti, si preparano per la notte.

Noto

che un bimbo è ferito in testa, la fronte fasciata da una vistosa garza. Preoccupato, chiedo cosa gli sia successo. Il papà sorride e mi spiega che si è schiantato contro un palo, giocando. Come tutti i bimbi della sua età.

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