Sono andati a cercarli casa per casa e si sono accaniti con fucili e machete contro chi veniva trovato con la croce al collo. L’ennesimo attacco jihadista contro i cristiani in Burkina Faso risale allo scorso 27 giugno, ma la notizia è stata diffusa soltanto ieri dalla diocesi locale. Il massacro si è consumato nel villaggio di Bani, nel nord del Paese, non lontano dalla città di Ouahigouya. Gli islamisti hanno ucciso quattro persone e poi hanno fatto incursione nei villaggi vicini. La minaccia è quella di scegliere tra la morte e la conversione all’Islam. “Se si continuerà a non intervenire il risultato sarà l’eliminazione della presenza cristiana da quest’area e forse in futuro anche dall’intero Paese”, ha commentato monsignor Laurent Birfuoré Dabiré, vescovo di Dori, sentito dalla fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre.
La spirale di violenza fondamentalista che ha travolto il Burkina Faso negli ultimi mesi ha già provocato decine di vittime. Almeno 17 sono le persone rimaste uccise in un raid degli islamisti nel distretto di Tongomayel. Altrettante avevano perso la vita all’inizio del mese in un altro attacco nella provincia di Soum, mentre dallo scorso marzo non si hanno più notizie di don Joël Yougbaré, sacerdote rapito nella diocesi di Ouahigouya. Ad essere prese di mirasono le città del nord del Paese che si trovano lungo i confini porosi con il Mali e il Niger. “Pian piano sono penetrati all’interno colpendo l’esercito, i funzionari e la popolazione - racconta monsignor Dabiré - oggi il loro obiettivo sono i cristiani e credo che vogliano scatenare un conflitto interreligioso”.
A seminare il terrore nei villaggi burkinabé sono miliziani stranieri ma anche i giovani musulmani locali. C’è chi sceglie di entrare a far parte dei commando “per mancanza di denaro, lavoro e prospettive", ma ci sono anche "elementi radicalizzati che partecipano a tali movimenti perché li ritengono espressione della loro fede islamica”, spiega il sacerdote. Intanto per arginare il fenomeno il governo di Ouagadougou ha inasprito le misure di sicurezza nella regione. Ma non basta. “Le armi che usano non sono fabbricate in Africa, hanno fucili, mitragliatrici e tante munizioni, più di quante ne abbia a disposizione l’esercito burkinabé”, denuncia monsignor Dabiré. “Quando arrivano nei villaggi – prosegue - sparano per ore: chi fornisce loro queste risorse?”. L’ipotesi del sacerdote è che i gruppi islamici radicali che operano nella zona possano contare su un “sostegno dall’esterno”. “Ecco perché – spiega il presule - mi rivolgo alle autorità internazionali”. “Chi ha il potere di farlo, ponga fine a queste violenze”, è l’appello del sacerdote.
Finora secondo l'Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), dall’inizio dell’anno le scorribande dei jihadisti hanno costretto 136 mila persone a lasciare le proprie abitazioni. Per il 95 per cento si tratta di sfollati interni, mentre in 11mila hanno scelto di rifugiarsi nel vicino Mali. E a temere maggiormente per la propria sicurezza è la comunità cristiana.
“Il livello di insicurezza aumenta costantemente e ci ha costretti a ridurre le attività pastorali e a chiudere due parrocchie per proteggere fedeli e sacerdoti”, riferisce il religioso che spiega come nel Paese alcune aree siano diventate off limits per i cristiani.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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