Primi segnali di ribellione contro il progetto dai tratti “imperialisti” posto in atto dalla Cina. Centinaia di manifestanti sono scesi in piazza nello Stato dello Sri Lanka e si sono scontrati con la polizia locale. La protesta dura da un mese circa, da quando cioè è stato inaugurato il cantiere della nuova zona industriale voluta propria dalla Cina. In realtà l’accordo tra Bejing e Colombo era stato siglato già da un anno e avrebbe previsto lo sviluppo del porto di Hambantota e la creazione appunto della nuova zona industriale adiacente. Il progetto fa parte del più ampio programma cinese che prevede la costruzione di una “Silk Road”, una nuova via della seta, che possa congiungere con mezzi moderni Pechino al Medio Oriente e all’Europa. I mezzi utilizzati dal Partito Comunista cinese sono proprio questi. Stipulazione di contratti con Paesi in condizioni economiche non favorevoli per la “concessione” di terreni, che le mega aziende statali cinesi andranno a sfruttare. Un vero e proprio progetto neocoloniale.
L’episodio dello Sri Lanka ne è l’emblema. L’accordo tra Pechino e Colombo prevedeva inizialmente la concessione del controllo dei principali terminal del porto di Hambantota alla join venture cinese, China Harbor Engineering e China Merchants Port Holdings, per quarant’anni. L’Autorità portuale dello Sri Lanka avrebbe dovuto mantenere il controllo dei restanti terminal e di 6.000 acri della zona industriale. Tuttavia queste condizioni sono saltate. C’è stato infatti un cambio politico al vertice nel Paese tra Rajapaksa, ex Presidente, e Sirisena. Quest’ultimo, spinto dalla disastrosa condizione debitoria dello Sri Lanka, ha cambiato le carte in tavola. Alla fine l’accordo raggiunto prevede che la joint venture cinese controlli l’80% del porto e che la concessione sia prolungata a 99 anni. Il tutto per la cifra di 1,12 miliardi di dollari. Questo è stato il pomo della discordia.
L’ex Presidente Rajapaksa ha infatti organizzato le proteste tra la popolazione sostenendo, come riportato dalla Reuters, che “Una concessione di 99 anni compromette la sovranità del Paese, perché una compagnia straniera avrà il diritto di sfruttare il porto. La mia non è una questione con la Cina o investitori stranieri. Si tratta di trovare il miglior accordo per il mio Paese”. I manifestanti, che sono tutti abitanti della zona, hanno in particolare paura che l’azienda cinese possa prima o poi sfrattarli dalla loro terra per motivi economici. Da parte cinese in effetti non vi è stata smentita dato che la portavoce del Ministro degli Esteri cinese si è limitata a dire che gli accordi devono rispettare “i principi del mercato”. Il mercato prima delle persone, è questa dunque la nuova filosofia del comunismo asiatico.
La situazione dello Sri Lanka è per certi versi paragonabile a quella della Grecia. Entrambe sono infatti vittime delle riforme strutturali imposte dal Fondo Monetario Internazionale. Come la Grecia, anche lo Sri Lanka ha dovuto sottoscrivere con il FMI un prestito nel gennaio 2015, per la cifra di 1,5 miliardi di dollari. Il prestito era ovvimente vincolato alla realizzazione di programmi imposti dal FMI. Come riporta il Dailymail i progetti portati avanti per conto FMI hanno causato “pesanti perdite”. Finchè il debito è arrivato a toccare quota 2,41 miliardi di dollari. Così lo Sri Lanka, sempre su “suggerimento" del FMI, ha iniziato il programma di privatizzazioni che lo portano oggi a svendere il porto principale del Paese.
In Grecia è successa la stessa cosa, dove Atene si trova in dirittura d’arrivo per la vendita del Porto del Pireo alla cinese COSCO. Le proteste in Sri Lanka continueranno, così come in Grecia, ma l’imperialismo cinese difficilmente si fermerà.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.