Nell'era del politicamente corretto imperante e della woke supremacy che dilaga negli Stati Uniti, dal mondo dell'intrattenimento a quello dell'istruzione, far parte di una minoranza non è solo più cool ma può anche essere indubbiamente vantaggioso. Tanto più se in questo clima di furore antirazzista alcune Università, come ha fatto lo scorso anno l'University of California, rilancia fra le polemiche le controverse quote razziali riservate alle minoranze etniche, oggetto in passato di durissime battaglie legali. E così, per avere la possibilità di studiare, qualcuno ha deciso di mentire: perché essere un "maschio bianco eterosessuale" nell'America di oggi è come minimo sinonimo di "privilegio". Se ricco o povero poco importa, la convinzione di certa sinistra americana è che tutti i maschi bianchi siano responsabili del colonialismo del passato e debbano pagarne le conseguenze.
Il sondaggio del think-tank
Un sondaggio condotto dal think-tank Intelligent, diffuso da The Hill, ha rilevato che il 34% degli studenti bianchi che hanno fatto domanda per college e università ha mentito sostenendo di far parte di una minoranza razziale; l'81% di coloro i quali hanno mentito sul proprio status lo ha fatto per avere più possibilità di essere accolto, mentre il 50% degli studenti ha affermato di aver mentito per accedere agli aiuti finanziari dedicati alle minoranze. Molti - il 48% - hanno sostenuto di essere nativi americani. Altro dato piuttosto curioso: come ha scoperto Intelligent, più di tre quarti - circa il 77% - degli studenti bianchi che hanno mentito sul proprio status è stato accettato nei rispettivi college. "Mentre altri fattori possono aver avuto un ruolo nella loro accettazione, la maggior parte dei candidati che hanno mentito e sono stati accettati (85%) crede che falsificare il proprio status di minoranza razziale li abbia aiutati a ottenere l'ammissione al college", scrive Intelligent nel rapporto. Sempre secondo il rapporto di Intelligent, "il doppio degli uomini rispetto alle donne ha dichiarato di essere un nativo americano nelle rispettive domande (54% contro il 24%)" sottolinea Intelligent.
Il caso Warren insegna
La domanda sorge spontanea: se tutto è fluido e il genere è una costruzione sociale, e nel paradiso ultra-progressistra un uomo di 70 anni può svegliarsi una mattina e decidere di sentirsi una donna, perché è un suo "diritto", allora perché questo principio non può valere anche per l'etnia? Non è solo una provocazione. Caso emblematico è quello della senatrice democratica Elizabeth Warren: come ricordava InsideOver, fin dall'inzio della sua carriera politica, Warren ha sostenuto di discendere dai nativi americani. Donald Trump, che non ha mai creduto a questa storia, l'ha definita ironicamente "Pocahontas". Per mettere a tacere le voci alimentate dal tycoon, la senatrice dem ha deciso nel 2018 di sottoporsi a un test del Dna i cui risultati hanno effettivamente confermato la presenza di sangue nativo risalente a sei-dieci generazioni prima. La mossa si è però trasformata in un autogol: i leader della comunità indigena hanno largamente criticato la decisione di sottoporsi al test, poiché "l’appartenenza non è data dal sangue, ma è insita nella cultura e nelle leggi che scegliamo di seguire".
Può un'ascendenza così lontana, risalente all'incirca alla sua bis bis bisnonna, consentire a Warren di definirsi parte di una minoranza? Se può farlo lei, allora qualsiasi studenti bianco che ha mentito sul suo status può rivendicare di avere presunte origini native americane o altro: qualcuno può forse pretendere un test del dna? Certo che no. Un cortocircuito che rispecchia un po' l'America di oggi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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