Contiamo ancora qualcosa? In Libia adesso o mai più

L'Italia deve rompere gli indugi. Bisogna recuperare il terreno perduto a favore di inglesi e francesi

Contiamo ancora qualcosa? In Libia adesso o mai più

O adesso, o mai più. Nel momento in cui gli uomini del Califfato stanno per essere cacciati dalla loro roccaforte di Sirte e il governo Serraj sembra consolidarsi, l’Italia deve rompere gli indugi : se vuole mantenere quella leadership sul dossier libico che gli stessi alleati le hanno – a parole – più volte riconosciuto, bisogna prendere iniziative coraggiose, e cercare di recuperare il terreno perduto a favore di inglesi e francesi (gli americani sono piuttosto dalla nostra parte). Se continuiamo a indugiare per eccesso di prudenza – paura di rappresaglie da parte dell’ISIS o di polemiche interne per avere surrettiziamente trascinato il Paese in una guerra - rischiamo di perdere l’ultimo treno e vedere compromessi gli importanti interessi che abbiamo sull’ex “Quarta sponda”. L’importante è che, avendo puntato sul governo Serraj sebbene controlli solo la metà del Paese, rispondiamo tempestivamente alle sue richieste, gli facciamo capire che siamo alleati affidabili e lo convinciamo che una forte intesa con Roma è per lui la migliore carta da giocare.

Per la verità, qualcosa si è già mosso. Abbiamo concesso senza far storie l’uso delle basi aeree in Sicilia per i raid americani su Sirte; siamo stati i primi a riaprire la nostra rappresentanza diplomatica a Tripoli (con la speranza che l’ambasciatore Perrone ci vada davvero subito); abbiamo inviato piccoli contingenti di truppe scelte in Libia grazie a una direttiva dello scorso novembre che autorizza il Presidente del Consiglio a metterle sotto il comando dei servizi segreti ed evitare così passsaggi in Parlamento; stiamo rispondendo alla richiesta di assistenza sanitaria per i combattenti delle milizie impegnate contri l’ISIS. Il governo assicura che i nostri militari (si parla di 40 uomini, ma probabilmente sono parecchi di più) non sono impegnati al fronte, ma si limitano ad addestrare, in cooperazione con gli alleati, i reparti libici impegnati contro gli jihadisti e a monitorare gli spostamenti di questi ultimi sul terreno, ora che sono costretti a ritirarsi dalla loro roccaforte. Forse, dietro la cortina di segretezza abituale in queste circostanze, i nostri militari, tratti dai più prestigiosi e preparati reparti delle nostre Forze armate, stanno facendo anche qualcosa di più. Tuttavia, nelle fasi cruciali che si preparano, dobbiamo fare uno sforzo ancora maggiore. Il premier Serraj ha chiesto esplicitamente il nostro aiuto, ci ha messo (se ce n’era ancora bisogno…) in guardia contro l’ISIS e ci ha confermato che gli jihadisti hanno cominciato a usare i barconi dei migranti per fare entrare in Italia potenziali terroristi. Dicono che abbia chiesto anche l’invio di una nostra nave ospedale, ma che non abbia finora ottenuto risposta. Comunque, sembra avere fiducia in noi, e dobbiamo approfittarne. Non promette bene neppure la frase del ministro degli Esteri Gentiloni che, come se si trattasse di ordinaria amministrazione, dice che “se ci saranno ulteriori richieste, le valuteremo”. Non è tempo di indugi, anche se in una prima fase si tratterà di fare più sacrifici che mietere benefici: perché più presto riusciremo a far capire a Serraj che Roma è la sua capitale di riferimento in Occidente, più i nostri interessi saranno tutelati: si va da un maggiore, e in questo momento cruciale, controllo del traffico di migranti alla difesa delle posizioni dell’ENI, sicuramente insidiate oggi, oltre che da forze locali, anche da francesi ed inglesi (che, stando a informazioni giornalistiche, starebbero addirittura assistendo già le milizie governative nei combattimenti).

C’è, naturalmente, il rischio di puntare sul cavallo sbagliato, cioè che Serraj, pur sostenuto dalla comunità internazionale, non riesca ad affermare la sua autorità su tutto il Paese: c’è il generale Haftar, sostenuto dall’Egitto (e forse dalla Francia) che ancora non ne riconosce l’autorità e punta alla separazione tra Tripolitania e Cirenaica, con la inquietante prospettiva che, sconfitta l’ISIS, si passi a una guerra civile. Comunque, poiché i nostri maggiori interessi sono a Tripoli, il rischio è da correre.

Non dobbiamo mandare ufficialmente truppe sul terreno, una cosa che richiederebbe l’autorizzazione del Parlamento e che gli stessi libici non vogliono, ma per tutto il resto la disponibilità deve essere massima: riprenderci il rapporto con la Libia che Berlusconi aveva instaurato con Gheddafi sarebbe il maggior successo di politica estera cui l’Italia può aspirare in questo momento.

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